lunedì 26 marzo 2012

Per l’amianto si muore ancora... la storia di Duilio Castelli di Monfalcone.

Duilio ha 75 anni e ha lavorato in Fincantieri fino all’89, ma già dal ’71 gli avevano diagnosticato l’asbestosi, una malattia respiratoria cronica legata alle proprietà delle fibre di asbesto di provocare una cicatrizzazione del tessuto polmonare. Non è mortale, l’asbestosi. Però causa un irrigidimento dei tessuti dei polmoni e, di conseguenza, la perdita di gran parte della funzionalità. A vederlo Duilio sta benone….
A Monfalcone quando si chiede dell’amianto ti rispondono che la “polvere” ha fatto almeno 600 morti accertati. Lavorare nei “cantieri della morte”, per molti qui ha rappresentato l’unica forma di sopravvivenza economica possibile. Anche per Duilio è stato così. “Cosa volete, quando si ha bisogno ci si adatta ai lavori meschini”.
Nessuno sapeva di correre un pericolo… E’ bastata una esposizione di trenta giorni, e per le donne lavare le tute sporche dei mariti, o portare via “solo polvere” dai tavoli della mensa aziendale per ammalarsi e poi morire. Talvolta è stato anche un abbraccio a tradirle, quello che riservavano ai loro uomini quando tornavano a casa la sera. “Molte delle nostre donne-racconta ancora Dullio - sono morte perché baciavano i nostri capelli…”.
L’amianto è un killer lento, si muove piano nel corpo e nell’aria. Una fibra di amianto ci mette 24 ore per scendere di un metro dall’alto, da dove la sparano le ciminiere. E anche quando ti è entrato dentro, nelle fibre della pleura, impiega anche trent’anni prima di risvegliarsi improvvisamente. Poi ti uccide in meno di un mese, ti uccide annegandoti nel liquido dei tuoi stessi polmoni che cresce a dismisura e non c’è catetere al mondo che te lo possa drenare via con la stessa rapidità con cui si forma. Lo sanno tutti che va così, a Monfalcone. Perché non c’è famiglia, in questa “company town”, nata e cresciuta nel progresso e nell’apparente benessere, che non conti almeno un morto in famiglia per colpa dell’amianto. L’amianto è ancora nell’aria. E da qui al 2025 ne moriranno ancora a grappoli. Da quando l’amianto si è smesso di usarlo, è stato calcolato a spanne un periodo di tempo entro il quale anche l’ultimo esposto al minerale killer avrà chiuso gli occhi ucciso dal mesotelioma, quel cancro al polmone che è provocato solo dalle fibre di amianto e da null’altro e che ti buca la pleura come un groviera fino a bloccare la respirazione. Dopo quell’anno che sarà il picco più alto, si dice, le morti cominceranno a scendere. Ma non è detto che finiscano lì. Qualcuno dovrà pagare per tutto questo, si dice. Anche se tra la gente si respira aria di rassegnazione. Perché ormai quelli che potrebbero essere considerati colpevoli dell’accaduto, i dirigenti della Fincantieri di quarant’anni fa, oggi hanno tutti quasi ottant’anni. E forse anche loro non ne sapevano un granchè del pericolo che correvano gli operai. Erano i tre direttori dello stabilimento Fincantieri che hanno guidato l’azienda dal 1966 fino al 1984: Giorgio Tupini, Manlio Lippi, e Vittorio Veneto Fanfani, rinviati a giudizio per il reato di omicidio colposo. Ma non si è mosso nulla.
Diverso il discorso per le cause di risarcimento. Nel 2004 l’attivismo di alcune associazioni, a partire da quella fondata da Duilio Castelli, aveva fatto muovere la procura di Gorizia. Si pensava che gli oltre 600 fascicoli affastellati sulla scrivania del procuratore generale, Carmine Laudisio, potessero essere la base per un maxi processo contro la Fincantieri. C’era parecchio entusiasmo, molte aspettative. Poi anche Gorizia, si è rivelata un porto delle nebbie. I 600 fascicoli ci sono ancora, a prender polvere sulla scrivania di Laudisio. Solo 4 cause hanno visto la luce, ma i tempi dei processi fanno pensare più alla prescrizione che alla giustizia. Eppure si continua a morire. Solo nell’ultimo mese sono stai celebrati ben 4 funerali di ex operai Fincantieri (alcuni di loro, come Mirko Yelen, giovani (51 anni, poi altri di 60 anni, 71 anni, etc…). Tutti con malattie riconducili, probabilmente, al lavoro svolto in fabbrica. Certo, le opere di bonifica ci sono state, forse sono anche servite a limitare danni peggiori futuri. Ma la vergogna è un’altra, che per tutti gli operai caduti “per il lavoro” non c’è stato nessun risarcimento fino ad oggi. La legge del ’92 ha solo consentito a molti di loro esposti all’amianto di godere di uno scivolo previdenziale, un prepensionamento di un numero di anni corrispondenti a quelli a cui si è stati a contatto con il materiale. Sembra quasi una beffa.
Era la parola “vivere” a creare problemi al dialogo. “Se avremo ancora tempo di vivere…” mi ha salutato senza un sorriso Roberto Perrini, 50 anni circa, saldatore della Fincantieri, che dal 2009 avrà lo scivolo previdenziale dopo sei anni passati a contatto con l’amianto. Ma può anche darsi che a Roberto non succeda nulla. Ci sono stati anche casi in cui questi “dead men walking” hanno beffato la morte. Come Luigino Francovich, anni passati a dormire sulle balle d’amianto, che a cinquant’anni se n’è andato dalla fabbrica dopo aver permesso di laurearsi a tutte e tre le sue figlie. Oggi ha aperto un ristorante, si sottopone a controlli ogni tre mesi, ma pare proprio che ce l’abbia fatta. Lui non è come Duilio. “Già nel 71 cominciavo a sentire l’affanno – ci racconta ancora Castelli – lavoravo col cannellino con fiamma, tagliavo i pannelli isolanti per la coimbentazione della navi, poi mi occupavo degli isolanti per le caldaie delle cucine a bordo, un lavoro infernale a temperature infernali. La polvere di amianto che c’era negli ambienti a volte non ti permetteva neanche di farti vedere a pochi centimetri. Poi è cominciata la spossatezza, non riuscivo a fare una rampa di scale, a tenere in mano la fiamma ossidrica. Sono andato dal mio medico,è stato lui a mettere in relazione la mia malattia con l’amianto. Ma erano gli anni ’70, troppo presto per capire la casualità. Poi nel 79/80 ci sono stati altri studi, ma si parlava ancora poco della pericolosità dell’amianto. Solo del mio reparto eravamo in 125, moltissimi i coetanei, i sopravvissuti di quel gruppo, siamo solo in 4. Comunque dopo i primi disturbi sono andato al personale che mi ha cambiato reparto e sono stato assegnato alla mansione di Guardiafuochi, ma anche lì ero a contatto con l’amianto… e poi quella polvere sottilissima era ormai in circolo dappertutto. Poi sono arrivati gli studi del professor Bianchi e abbiamo cominciato a capire, ma la gente aveva il timore di denunciare, ma i morti c’erano. Poi nel 1994 fondo l’associazione, piccola, troppo giovane, molti sono arrivati col passaparola e molti altri me li sono andati a prendere da soli, i malati o i parenti delle vittime”.
Oggi secondo Diego Dotto – figlio di un operaio che lavorava in appalto per Fincantieri e morto nel 1997 per tumore ai polmoni – gli iscritti sono 160 circa. L’A.E.A. con la propria azione di volontariato porta avanti la battaglia di coloro che chiedono un riconoscimento anche in sede giudiziaria per le vittime dell’amianto. Sempre l’A.E.A. ha incontrato di recente il Procuratore Generale di Trieste, Deidda, che ha balenato l’ipotesi di avocare a se le indagini e le inchieste sui morti di amianto. Una speranza, per quanto flebile, di riprendere il filo di un discorso interrotto dalla giustizia e dallo Stato, che ancora oggi fa finta di non vedere. Per vergogna e per omertà.
L’amianto è fuorilegge, adesso si usano lana di vetro e lana di roccia, che sono cancerogeni lo stesso, ma finché la medicina ufficiale non lo dimostrerà le aziende potranno continuare a farli usare a una manodopera sempre più immigrata, del tutto ignara del proprio destino. A Monfalcone oggi ci lavorano i bengalesi. Li trovi a tutte le ore, addossati al muretto davanti al Bar Universo e in attesa dell’autobus 212, il loro unico mezzo di trasporto. Per loro anche una bicicletta, quella che usano tutti i canterini, così tante che sembra di stare in Cina. Eppure hanno facce allegre, sorridenti.
E’ una città ferita, Monfalcone. Dove, ancora oggi e nonostante i morti, le regole della sicurezza sul lavoro sono le prime ad essere violate. Ma soprattutto, Monfalcone è il luogo dove la giustizia ha preso il largo da tempo insieme con le navi da crociera più belle del mondo e che non importa quanto sono costate, anche in termini di vite umane, perché le ragioni del mercato hanno in questo luogo radici più profonde del dolore delle vittime dell’amianto. Quella di Monfalcone è una storia da continuare a raccontare, una delle tante pagine nere d’Italia, che non deve andare a finire come Porto Marghera o come tante altre faccende, dove alla fine la colpa non è di nessuno e dopo un po’ il grido dei morti e il pianto delle vedove diventa un suono di sottofondo che non ascolta più nessuno. Nel profondo nord est operoso d’Italia c’è un’intera città che chiede, oggi come ieri, verità e giustizia.

di Marianna De Rosa

FONTE: caffenews.it
http://www.caffenews.it/mezzogiorno-sud/574/per-l%E2%80%99amianto-si-muore-ancora%E2%80%A6la-storia-di-dullio-castelli-di-monfalcone/


Questa è la storia di Duilio Castelli, sopravissuto alla "strage" dell'amianto ma malato di asbestosi.... questa è la storia della Fincantieri di Monfalcone, un altro luogo, come Casale Monferrato, come Broni, in cui l'amianto ha mietuto vittime su vittime.

Con questo articolo chiudo questa parentesi "amianto", ripromettendomi però di tornarci sopra in futuro, in quanto certe cose è bene che siano divulgate e si sappiano il più possibile, per evitare di ricadere nei soliti tragici errori.
Personalmente spero anche che venga fatta giustizia, sull'onda del recente processo di Torino per le vittime dell'amianto di Casale Monferrato, ma questo non per vedere messi alla "gogna" gli eventuali responsabili di questa strage, quanto piuttosto per veder riconosciuto un congruo indennizzo alle famiglie di coloro che hanno perduto dei propri cari. Indennizzo che comunque non potrà riportare in vita coloro che la vita l'hanno perduta a causa dell'amianto.

Marco

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