lunedì 30 luglio 2012

Il calvario di Nicola, invalido che nessuno vuole. Ma per l'Asl è quasi sano

Nicola Abate ha appena 37 anni, ma ha già trascorso oltre metà della sua vita tra ospedali e commissioni mediche dopo un gravissimo incidente avuto in età adolescenziale che l’ha reso oggettivamente invalido, lasciandogli una cecità all’occhio destro, vistose lesioni e un’evidente zoppia alla gamba sinistra e gravi problemi di udito. Incapace di lavorare, dunque. Ma non per l’Asl o per l’Inps che non gli hanno mai riconosciuto la soglia di invalidità prevista dalla legge per aver un’indennità, prendendosi spesso quasi gioco di lui con valutazioni contraddittorie al limite del paradosso. “E dire che siamo nella patria di coloro che si fingono ciechi o paralizzati” sibila con tono sarcastico. Nicola, che vive a Trentola Ducenta in provincia di Caserta con moglie e due figli minori, è forse un po’ disilluso, ma di certo non è stanco di proseguire la sua battaglia; la sua è la determinazione di chi sa di essere dalla parte del giusto, come dimostrano le quattro istanze presentate, i due giudizi civili attivati, l’esposto alla Procura e le numerose lettere inviate negli anni ai vari soggetti istituzionali. “Sono ventidue anni che combatto per vedermi riconosciuto un diritto che mi è stato sempre negato nonostante avessi patologie certificate da numerosi medici. Chiedo solo una più giusta valutazione per il mio danno e una procedura più celere”.
Il calvario di Nicola inizia il 30 luglio del 1989, quando ha 14 anni e 11 mesi. “Avevo da poche settimane passato l’esame di terza media – racconta - quel pomeriggio molto caldo attendevo la fidanzata a bordo della mia Vespa verde sul marciapiede vicino casa sua, in viale Europa a San Marcellino; improvvisamente un’auto mi venne addosso e di lì cambiò la mia vita. Fui io a raccogliere la mia gamba sinistra e a consegnarla ai medici dell’ospedale di Aversa; poi svenni e mi risvegliai al Cardarelli di Napoli dove intanto mi avevano riattaccato l’arto”. Nicola resta nel letto del presidio partenopeo fino al 29 aprile dell’anno successivo, quindi, dopo sei giorni a casa, viene nuovamente ricoverato per altri 4 mesi. “Ho subito in tutto, fino al 1992, ben 14 operazioni, tra cui quattro trapianti di pelle, carne e ossa. Nel corso degli anni tra l’altro, tutti i medicinali presi mi hanno causato una perdita delle frequenze basse all’udito con difficoltà nel sentire; e spesso soffro di vertigini”. Al dolore fisico si aggiungono i rimpianti spesso più dolorosi per non aver potuto avere una vita come quella dei suoi coetanei: “volevo iscrivermi al Geometra – dice - ma non ne ho avuto la possibilità. Così tante strade non mi si sono mai aperte”.
Dopo la battaglia clinica, Nicola ne ha intrapresa un’altra, forse ben più complicata, contro la burocrazia spesso cieca alle reali esigenze degli utenti e sovente poco professionale. “La prima richiesta inviata all’allora Usl di Aversa per il riconoscimento dell’invalidità e della conseguente indennità è datata ’92; la commissione, che si riunisce a Lusciano (sede del distretto sanitario di cui fa parte il comune di Trentola, ndr), la respinge dandomi un punteggio pari al 65% mentre per legge il minimo è 74%. Dopo alcuni anni propongo una seconda istanza e mi viene riconfermato il 65%; ma intanto la mia zoppia ha causato anche problemi alla schiena non essendo bilanciato il bacino e soprattutto non mi ha permesso di ottenere alcun tipo di lavoro. Ho provato ovunque, e ovunque mi dicevano che non potevo lavorare perché non ero in grado di assicurare ogni giorno la mia presenza; mi dicevano esplicitamente ‘non ci interessi’. Con il mio 65% di invalidità mi sono poi iscritto nella sezione Massima Occupazione del collocamento di Caserta ma nessuno mi ha mai contattato, poi mi sono registrato a quello di Roma con lo stesso risultato. Mi dicevano che senza una conoscenza in qualche ente pubblico o azienda privata era impossibile lavorare. Oggi sono iscritto al collocamento di Parma ma sono sempre in attesa e intanto sopravvivo con mia moglie e i due figli di 10 e 7 anni grazie alla pensione di mia madre”.
Dopo la seconda bocciatura, Abate decide di cambiare strategia rivolgendosi alla magistratura ordinaria: è il 1998 quando presenta un esposto alla Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere affinchè accerti l’esistenza di eventuali reati nella condotta dei medici della Commissione dell’Asl. Dopo appena due anni, e dopo aver ascoltato i funzionari pubblici che ripetono all’unisono di aver operato correttamente, l’ufficio inquirente chiede l’archiviazione che il Gip concede dopo altri cinque anni (il 16 agosto del 2005); sempre nel 1998 Nicola cita davanti al giudice civile Asl e Inps ma, il consulente tecnico d’ufficio nominato dal giudice, ovvero il medico Federico Panarella, dopo un’attenta visita conferma il 65%. “Quasi si scusò con me – ricorda Abate - ma mi fece capire che non poteva contraddire i suoi colleghi della commissione dell’Asl. Alla fine persi la causa e il giudice mi condannò anche a rifondere le spese del giudizio”. Siamo verso la fine del 2001. “A quel punto, convinto di aver ragione – racconta Nicola - mi recai privatamente da un medico legale in servizio proprio al distretto Asl di Aversa, Mariano Buniello (in quel momento responsabile del Distretto n. 36 con sede a Lusciano dell’Asl Caserta2, ndr), il quale mi riscontrò un’invalidità dell’80%”. Buniello, al termine della sua consulenza, non solo formula esplicite critiche alla perizia del dottor Panarella, ma conclude che “l’incidenza dell’infermità sulla capacità lavorativa del soggetto si spiega da sola”, e “che è utile nell’interesse della giustizia e del ricorrente rinnovare la ctu”. “Alla luce della consulenza di Buniello – prosegue Abate - decisi di riproporre nel 2004 una terza istanza, ricevendo un’ulteriore beffa; la commissione, riuniatasi al distretto di Lusciano, dal 65% che avevo in precedenza mi riconobbe il 47%. Quando mi hanno notificato il verbale non credevo a quello che leggevo. Pensavo ci fosse un errore, addirittura di trascrizione, ma all’Asl, il presidente della Commissione mi disse che era tutto vero, e che secondo loro la mia invalidità era scesa”. Nel frattempo i prolemi di salute di Nicola aumentano: nel 2005, un altro medico in servizio sempre al distretto Asl di Lusciano, Alfredo Alviano Glaviano, riscontra nel giovane un’asma bronchiale cronica che ancora oggi gli dà diritto a ricevere gratuitamente le medicine. Nicola ci riprova così nuovamente nel 2008. Alla quarta istanza vengono allegati anche i problemi all’udito: questa volta l’Asl lo porta dal 47% al 74% ma intanto la nuova normativa dà all’Inps la parola finale. “La commissione Inps mi assegna il 60%, impedendomi ancora una volta di percepire l’indennità che mi spetta”. Arriviamo così al recente passato: nel 2011 Nicola cita nuovamente l’Istituto di previdenza. Lo attende un altro processo con perizia ma intanto il 4 giugno scorso uno spiraglio sembra averlo aperto il Quirinale, che ha risposo ad una delle tante lettere inviate dal giovane (l’ultima datata 28 marzo): la firma è del segretario generale di Napolitano, il quale assicura “di aver trasmesso tutti gli atti alla Direzione Generale di Roma dell’Inps per la valutazione e le eventuali iniziative del caso”. “L'ingiustizia che ho subito dalle istituzioni è troppo grande per non essere riparata. Nonostante tutto – conclude - spero e credo ancora nello Stato”.

di Antonio Pisani e Marilù Musto

10 luglio 2012

FONTE: doveredicronaca.blogspot.it
http://doveredicronaca.blogspot.it/2012/07/il-calvario-di-nicola-invalido-che.html?spref


Nel nostro belpaese in televisione, sui giornali, su internet, si parla spesso, pure troppo, di falsi invalidi, quasi come se questa fosse la piaga peggiore della nostra società..... e invece dati alla mano i falsi invalidi sono solamente lo 0,08% del numero totale di invalidi, quindi meno di 1 su mille. Come spesso accade però quell' uno su mille fa molto rumore, creando così l'illusione che l'Italia sia un paese costituito da tanti "furbacchini" che la fanno in barba allo Stato e alle persone oneste. E invece non è così, se non per una netta minoranza di persone.
Ma perchè invece, anzichè parlare sempre di falsi invalidi (i quali vanno comunque giustamente smascherati, e con loro i medici compiacenti che dovrebbero essere depennati immediatamente dall'Albo dei medici), non parliamo invece di tutti coloro che sono realmente invalidi e malati e non hanno nessuna invalidità, o una invalidità troppo bassa in rapporto al loro reale stato di salute? E sono tante queste persone, TANTISSIME, ignorate da tutti, molto spesso lasciate del tutto sole a loro stesse, nel loro dolore, nella loro solitudine, nella loro indigenza. Penso sopratutto a tutti coloro che hanno patologie altamente invalidanti, ma non ancora riconosciute dal nostro sistema sanitario nazionale.
In questo blog ho parlato spessissimo (e continuerò ancora a farlo) di malati con Sensibilità Chimica Multipla (MCS), Encefalomielite Mialgica (ME) e Fibromialgia (FM).... quando penso a persone malate senza riconoscimento, non posso fare a meno di pensare a loro, vittime di una situazione assurda, senza invalidità pur essendo malate, talvolta in maniera così grave da non poter neppure mettere il naso fuori di casa. Com'è possibile che a dei malati come loro non venga riconosciuta una invalidità adeguata al loro stato? Perchè non si parla mai di queste persone, vere vittime di autentiche ingiustizie?
Ah, come vorrei che si parlasse di questo grande, DRAMMATICO problema anzichè puntare il dito sempre sui "soliti" falsi invalidi.... come vorrei che venisse a galla questo grande sottobosco nascosto della nostra società, perchè sono veramente tante le persone senza invalidità che invece la meriterebbero totalmente. Persone che, molto spesso, oltre ad essere emarginate dalla società, non vengono credute neppure dai propri cari. Purtroppo ne sento tante di storie come queste, e il dolore che si prova quando non si viene riconosciuti per ciò che realmente si è, sopratutto da chi dovrebbe esserci vicino, non lo si può neanche descrivere se non lo si prova personalmente.
Parliamo anche di queste persone allora, non emarginiamole, facciamo in modo che ricevano quello che spetta loro di diritto.... questo deve fare un paese veramente civile !

Marco

venerdì 27 luglio 2012

Yovana Yumbo, bimba senza nè braccia nè gambe, che sorride alla vita


Yovana nasce il 18 Febbraio 2003 in un barrio (quartieri bassi) del Perù, quarta figlia della coppia Yumbo, senza nè arti superiori nè arti inferiori. Nonostante la sua tetramelia (mancanza di braccia e gambe), la bimba è sanissima, le funzioni degli organi interni sono regolari e i genitori vengono aiutati, anche psicologicamente, da un centro di salute. Con il passare del tempo lo sviluppo della bambina è normale, come quello di tutti i bambini, e la piccola conquista l'affetto non solo dei genitori e dei parenti, ma anche di tutto il circondario.
Iris, la sua sorella maggiore, è la persona che si incarica maggiormente della cura di Yovana e di lei ha sempre detto che la sua nascita è stata "Una benedizione per me, che Dio mi ha mandato", aggiungendo anche che il suo desiderio per la sorellina è quello di avere "Le sue mani e i suoi piedi. Io le voglio molto bene!".
Sia le istituzioni locali che diverse persone volenterose hanno aiutato economicamente la famiglia Yumbo in vari modi. Le istituzioni, ad esempio, hanno dato un lavoro fisso al padre, in modo che la madre potesse stare a casa con la piccola, e le hanno fornito il servizio dell'acqua gratis.
La madre è preoccupata per il futuro della figlia, per quando crescerà, ma è anche fermamente grata a Dio per averla avuta.
Gli sforzi della famiglia, e anche delle persone che li hanno aiutati, sono stati ricompensati dal bellissimo sorriso, dalla vitalità e dell'ingegno della figlia che ha imparato ad utilizzare al massimo tutto quello che ha, imparando a bere e a mangiare con la bocca e persino a scrivere.
Tuttavia da quando la bambina è nata, 9 anni fa, non sono mancate le lotte per farsi accettare dagli altri, ma anche in questo, fortunatamente, da 4 anni sono seguiti sia dall'istituzione per disabili di Atalaya, che dall'associazione umanitaria Sacro Cuore di Gesù. Ciò nondimeno per la piccola Yovana si invoca la sensibilità internazionale e si auspica che il suo caso venga reso noto e aiutato perchè "non c'è peggior disabilità dell'incapacità di amare".


Il futuro della piccola Yovana potrebbe essere legato all'utilizzo di arti bionici.
Il Dott. Luis Rubio della clinica La Luz, che sta seguendo la bambina, ha detto di Yovana: “A livello dell'anca esiste solamente parte dell'osso iliaco e nell'osso vi è una piccola cavità per il femore che invece manca dall'altro lato. Quindi manca un pezzettino di osso in cui collocare una protesi di femore. Successivamente abbiamo cercato negli arti superiori: qui c'è l'osso della spalla, ma dell'omero non esiste assolutamente nulla. Tuttavia ci sono cartilagini che mantengono il movimento, che infatti l'articolazione conserva: questa articolazione la può piegare, puntare verso la faccia, verso il mento, e con questo la bambina ha sviluppato delle abilità che le permettono di scrivere, prendere il cucchiaio, andare verso il piatto: è incredibile come meravigliosamente l'organismo ha permesso di sviluppare nuove abilità e la lingua e i denti sono come dita: ella può sfogliare un libro, maneggiarne le pagine, cogliere oggetti".
Per la possibilità di impiantare protesi alla bambina, dato che non esistono cavità articolari, il Dottore ha risposto: "E' proprio così, ma grazie a Dio Yovana è nata in questo secolo e con lo sviluppo della tecnologia moderna noi possiamo riuscire a realizzare un robot con braccia e gambe in cui si danno gli ordini con i muscoli del petto per far eseguire i movimenti alle dita del robot. Logicamente non si può avere sensibilità tattile, questo non è possibile". Ha poi aggiunto: “Questo è il nostro intento, quello che faremo nella Clinica La Luz. Per prima cosa ci occuperemo che la salute di Yovanita vada bene, poi la clinica La Luz si farà carico di tutto il suo soggiorno a Lima per migliorare l'aspetto psicologico e psicomotorio per poter fare il trattamento medico. Da qui stiamo convocando gli specialisti peruviani e gli ingegnneri meccanici e vogliamo fare una meravigliosa cordata per cambiare la vita a questo essere umano, di questa bella Yovanita, che ha tanta voglia di vivere, che mostra questa felicità straordinaria anche con l'assenza di 4 arti".
Per ciò che riguarda il fattore economico per realizzare tutto quanto, il Dottore risponde che “il costo non deve rappresentare un problema perchè è il momento in cui tutto il Perù deve aiutare questa bimba per mostrare a tutto il mondo quello di cui sono capaci in Perù. L'intento è di riuscire a fare tutto in un anno-un anno e mezzo circa”. Il Dott. Rubio conclude infine dicendo “che nel centro La Luz verrà continuato il percorso già iniziato ad Atalaya, per dare alla piccola Yovana una qualità di vita differente e migliore”.

FONTI:
http://www.youtube.com/watch?v=mksxA-WEBDw
http://www.youtube.com/watch?v=duMN4jXLpUE





Impossibile non rimanere conquistati dalla simpatia e dal sorriso della piccola Yovanna Yumbo, questa bimba peruviana nata senza braccia e senza gambe, ma con una vitalità straordinaria. Consiglio a tutti, ma veramente a tutti, di vedere il video, in quanto certe immagini valgono più di tante parole.... e sono sicuro che dopo averlo visto, Yovannita entrerà nel cuore di ciascuno di noi.
Un ringraziamento particolare lo devo fare a Francesca, che mi ha segnalato la vicenda di questa dolcissima bambina e mi ha consentito di postarne la storia traducendomi i video presenti su You Tube.

Marco

mercoledì 25 luglio 2012

Danzando sulle ali della felicità. Simona Atzori: "Spesso i limiti sono in chi guarda, non in noi"

La ballerina e pittrice, nata senza braccia, sintetizza la sua filosofia di vita e racconta: "La pittura e la danza sono le mie muse ispiratrici, tutta la mia vita gira intorno a loro". E riflette su quando il limite può diventare un alibi e ci si riempie la vita di scuse riguardo a ciò che "non è possibile fare", ignorando ciò che si ha. "Lo sforzo decisivo è superare la paura che ci frena"

ROMA - "Ci identifichiamo sempre con quello che non abbiamo, invece di guardare quello che c'è [...]. Il genere umano deve arrivare al limite per riuscire a costruire un decente elenco di priorità. Perché dobbiamo arrivare fin lì per capire alcune cose fondamentali?". L'interrogativo, che non lascia scampo, è contenuto nel libro di Simona Atzori, intitolato "Cosa ti manca per essere felice?" "Cerchiamo sempre i percorsi più difficili per ottenere le cose, e in parte è anche giusto - dice Simona -. Ma puntiamo sempre al "cosa ci manca". Forse perché guardare davvero ciò che abbiamo è più faticoso, dobbiamo scavare in profondità. E allora, ecco, il limite è anche un alibi che ci costruiamo. Buttarsi senza conoscere il risultato è difficile... Siamo pieni di scuse nella nostra vita. Lo sforzo è superare la paura che ci frena".

Ballerina e pittrice nata senza braccia, Simona Atzori ha danzato davanti a Giovanni Paolo II, alla cerimonia di apertura delle Paralimpiadi (a Torino nel 2006) e all'ultimo Festival di Sanremo. Ha al suo attivo mostre collettive e personali in tutto il mondo. A fine gennaio è andata in Kenya come ambasciatrice della Fondazione Fontana di Padova. La onlus è impegnata nel progetto "Con i piedi per terra", a supporto della Saint Martin, organizzazione religiosa che nel Paese africano si prende cura delle persone più fragili e vulnerabili: disabili, bambini di strada, donne vittime di violenza. «Ho visitato due carceri, sono stata in paesi sperduti senza strade. Lì ho danzato e tenuto incontri davanti a 1.200 persone, molte delle quali avevano fatto anche quattro ore di cammino a piedi per incontrarmi. Il papà di un bambino con la sindrome di Down mi ha detto: "Pensavo non valesse la pena perdere tempo a stimolarlo e motivarlo: ora che ti ho incontrato, so che è possibile". Il disabile in quella cultura è accostato a qualcosa di negativo, viene abbandonato o lasciato chiuso in casa". E ci tiene ad aggiungere: "Pensavo che il mal d'Africa fosse una romanticheria da letterati, invece entra nel profondo".

Il libro è un po' la storia della sua vita. Perché ha scelto di pubblicarlo proprio in questo momento?
Lo chiamo il backstage della mia vita. L'idea c'era da tempo, ora si è concretizzata per una serie di coincidenze. L'editore me lo ha chiesto, segno che forse era arrivato il momento giusto.

Nel libro racconta la serenità e la forza di una donna, sua madre, alla quale deve molto in quanto a battaglie e conquiste. Le cronache ci hanno riportato i timori di una mamma nell'iscrivere suo figlio in un asilo in cui ci sono bambini disabili...
Tutti noi abbiamo molta paura di ciò che non conosciamo. Questi aneddoti raccontano un mondo che sta andando all'indietro: sono un sintomo di diseducazione. È grave, innanzitutto, nei confronti del figlio, al quale viene negata l'opportunità di conoscere la diversità, e che così non potrà crescere. Non sono una persona che condanna, però questi episodi mi fanno paura. Se cominciamo dai bambini, sarà più facile far capire anche agli adulti quanto la diversità faccia parte di tutti noi.

Protagoniste indiscusse del libro, come della sua vita, sono due muse, la pittura e la danza: «Due, come le ali». Spesso si intrecciano, come nella tesi di laurea alla facoltà di Visual Arts in Canada, in cui ha riportato su tela i movimenti della danza.
È così. Come sarebbe stata Simona senza di loro? Non ci ho mai pensato. Tutta la mia vita vi ruota intorno. Dico sempre che non sono stata io a sceglierle, ma sono loro a essere entrate in me.

Il suo amico Emanuele la descrive come una vittima di «protagonismo involontario». Dato che la gente la guarda, lei diventa protagonista suo malgrado. Che effetto le fa?

C'è differenza tra gli sguardi di chi mi ha riconosciuta perché mi ha vista ballare (sguardi buoni, di ammirazione e d'intesa) e quelli di chi, invece, vede solo quello che non c'è: le braccia. Sono stata disegnata così, e allora? Gli sguardi compassionevoli non li sopporto. Sono invasivi, talvolta pesanti. Credo che la nostra civiltà non sia educata a percepire ciò che non rientra in canoni prestabiliti, come un altro modo possibile: considera il diverso un errore, uno scarabocchio del quale può fare ciò che vuole, dall'alto della sua "normalità".

Viaggia molto e ha soggiornato spesso all'estero. Ha riscontrato delle differenze nell'atteggiamento con cui ci si rapporta alle diversità? A Milano e Toronto la guardano con gli stessi occhi?
In Canada ho trovato un ambiente diverso. Il Paese ha un tessuto sociale basato sulla multiculturalità: ciò che vige su tutto è che ogni persona ha i propri diritti. La gente è più abituata alle diversità e questo mi ha facilitato. Ci sono centri che aiutano in maniera naturale: non è come chiedere l'elemosina. Così, per esempio, una persona con dislessia è accolta, considerata, fa parte del sistema. Da noi, invece, chi ha necessità diverse sembra dover lottare per sempre. Certo, anche gli sguardi sono diversi.

Nelle pagine da lei scritte incontriamo anche Andrea, l'amore della sua vita, e poi i volti dei suoi amici, i compagni di danza... Simona, cosa le manca ancora per essere felice?
Non mi manca niente: il titolo del libro è una provocazione che lancio a tutti. Se ci penso, sì, ci sono ancora tremila cose che mi mancano, ma gli ingredienti per fare ciò che mi piace li ho già tutti.

di Elisabetta Proietti

17 luglio 2012

FONTE: superabile.it
http://www.superabile.it/web/it/CANALI_TEMATICI/Senza_Barriere/Interviste_e_personaggi/info1967327994.html


Bellissimo personaggio e bella intervista. Merita davvero conoscere la storia di Simona Atzori (di cui avevo già parlato su questo blog), questa ragazza nata senza braccia, ma con una incredibile vitalità. Simona, con le sue parole, ma sopratutto col suo esempio, ci insegna ad essere un pò più felici, a guardare quello che abbiamo senza soffermarci troppo su quello che non abbiamo, ci insegna a dare valore alle cose che realmente contano.
Sono insegnamenti semplici e alla portata di tutti, di cui però, non di rado, un pò troppo spesso ci dimentichiamo. Grazie Simona.

Marco

Pesticidi abbandonati

In tutto il mondo esistono tonnellate di insetticidi chimici inutilizzati, vietati od obsoleti, che rappresentano un rischio per la salute pubblica e ambientale.

 

Elevate quantità di rifiuti chimici tossici, provenienti da pesticidi inutilizzati od obsoleti, minacciano l'Europa orientale, l'Africa, l'Asia, il Medio Oriente e l'America Latina. L'allarme è stato lanciato dalla Food and Agriculture Organization (FAO). Si stima, per esempio, che in Ucraina si trovino circa 19.500 tonnellate di prodotti chimici scaduti. In Macedonia ce ne sarebbero 10.000, in Polonia 15.000 e in Moldova 6.600, mentre in Asia (ma senza includere la Cina, dove il problema sarebbe molto diffuso) si supererebbero le 6.000 tonnellate. In Medio Oriente e in America Latina si raggiungerebbero le 10.000 tonnellate e molti paesi hanno già richiesto aiuto alla FAO. I pesticidi obsoleti vengono abbandonati dopo le campagne di disinfestazione o si accumulano perché molti prodotti sono stati vietati per ragioni di salute pubblica e ambientale, ma nessuno li rimuove o li elimina. Le confezioni rimangono dove vengono immagazzinate e spesso si deteriorano, contaminando l'ambiente e mettendo in pericolo gli abitanti delle zone circostanti. Le comunità più a rischio sono quelle povere e rurali, che potrebbero non essere nemmeno al corrente della natura tossica delle sostanze chimiche a cui vengono esposte ogni giorno. I siti contengono alcuni degli insetticidi più pericolosi, inquinanti organici persistenti come aldrina, clordano, DDT, dieldrina, endrina, eptacloro e organofosfati. Le condizioni di immagazzinamento variano da prodotti ben custoditi (che possono ancora essere usati) a confezioni che perdono perché l'acciaio dei contenitori è stato corroso.

15 settembre 2004

FONTE: lescienze.it
http://www.lescienze.it/news/2004/09/15/news/pesticidi_abbandonati-586096/


Articolo un pò datato che mette in evidenza un problema poco considerato, ma molto importante: quello dei pesticidi abbandonati.
Con questo post chiudo per ora l'argomento "pesticidi", anche se credo sarà assai probabile che vi torni sopra in futuro. L'argomento del resto è scottante e coinvolge tutti: uomini, animali e ambiente. Ed io, che soffro nel vedere come la nostra Madre Terra viene deturpata da noi uomini, vorrei tanto che questi prodotti venissero banditi totalmente, per tornare ad una agricoltura più sana e rispettosa dell'ambiente. Per il bene di tutti !

Marco

martedì 24 luglio 2012

Gli effetti dei pesticidi colpiscono fino alla terza generazione

L'esposizione a un comune pesticida agricolo porta ad alterazioni comportamentali nelle generazioni successive, che appaiono più ansiose e più sensibili allo stress del normale. Il risultato, ottenuto sul ratto, pone la questione del possibile impatto di molte sostanze disperse nell'ambiente sul comportamento e sui disturbi mentali anche nell'essere umano.

Potrebbe avere un significativo impatto sull'annosa diatriba "Nature vs. Nurture" il risultato ottenuto da un gruppo di ricercatori dell'Università del Texas a Austin e della Washington State University che hanno osservato un'eccessiva reazione allo stress in alcuni ratti in seguito all'esposizione a una sostanza delle generazioni a loro precedenti.

Come riferiscono sulla rivista “Proceedings of the National Academy of Sciences”, David Crews e Michael Skinner hanno esposto alcune femmine gravide di ratto alla vinclozolina, un comune funghicida usato in agricoltura e orticoltura, di cui sono noti alcuni gravi effetti sul sistema endocrino sia in alcune specie animali sia dell'essere umano.

I ricercatori hanno poi sottoposto la terza generazione di ratti a test comportamentali, rilevando che gli animali erano più ansiosi e più sensibili allo stress rispetto ai ratti di controllo, i cui ascendenti non erano stati esposti alla sostanza. Questi dati sono poi stati confermati da scansioni di risonanza magnetica dell'attività delle aree cerebrali legate alla risposta allo stress.

Inevitabile, dati i risultati, rivolgere l'attenzione a possibili analogie con l'uomo e la contaminazione ambientale diffusa in molte parti del mondo. “Ora siamo alla terza generazione dall'inizio della rivoluzione chimica, a partire da cui gli esseri umani hanno cominciato a essere esposti a questo tipo di tossine”, spiega Crews.

Secondo quanto ha messo in luce la ricerca, la vinclozolina può avere un effetto transgenerazionale anche sui processi epigenetici che regolano l'espressione genica, influenzando per esempio il modo in cui i ratti scelgono il partner per l'accoppiamento.

I risultati di Crews e Skinner sembrano così gettare luce su un nuovo livello di influenza biologica non solo sul comportamento, ma anche potenzialmente sui disturbi mentali.

Non c'è dubbio che stiamo assistendo a un notevole incremento di patologie quali l'autismo o il disturbo bipolare, e credo che ciò sia da attribuire a qualcosa di più della sempre più accurata capacità diagnostica”, ha concluso Crews. “Quale spiegazione possiamo avanzare? Sicuramente viviamo in un mondo più frenetico e stressante che in passato, ma forse non basta: potremmo ipotizzare che oltre a ciò rispondiamo in modo differente perché abbiamo avuto una diversa esposizione ai contaminanti”.

22 maggio 2012

FONTE: lescienze.it
http://www.lescienze.it/news/2012/05/22/news/suscettibilit_transgenerazionale_stress_ansia_esposizione_sostanza_vinclozolina-1038200/


Trovo molto interessante questo studio che, se trasferito all'uomo, spiegherebbe il perchè la nostra odierna società è così soggetta a un gran numero di nuove patologie. Oltre alle patologie menzionate nell'articolo penso anche all'MCS (Sensibilità Chimica Multipla) e all'ADHD (Sindrome da Deficit di Attenzione e Iperattività), quest'ultima così frequente nei bambini di oggi, e così soggetti, ahimè, alla somministrazione prematura e massiccia di psicofarmaci.
Sotto accusa, ancora una volta, sono i pesticidi, i quali continuo a sostenere che dovrebbero essere completamente vietati perchè troppo dannosi per l'ambiente e per la salute dell'uomo. Ricordiamoci dell'inquinamento che i pesticidi causano alle nostre falde acquifere, indispensabili per fornire acqua potabile a tutti noi, e delle correlazioni oramai dimostrate tra il consumo di pesticidi e un gran numero di patologie. Non ce n'è forse abbastanza per dire STOP a questo genere di prodotti? Con un pò di buona volontà non si potrebbe tornare ad un tipo di agricoltura completamente biologica? Riflettiamo su tutto questo e pensiamo sempre che ogni qualvolta si utilizzano prodotti come i pesticidi, si fa del male non solo a noi stessi ma anche ai nostri figli e ai nostri nipoti. Chi, con retta coscienza, potrebbe volere una cosa come questa?

Marco

domenica 22 luglio 2012

E’ ufficiale, i pesticidi causano il morbo di Parkinson


Per prima in Europa, la Francia riconosce il Morbo di Parkinson come malattia professionale per gli agricoltori entrati a stretto contatto con i pesticidi.

Il decreto francese è stato pubblicato lo scorso maggio ed è entrato in vigore di fatto un mese fa. Alla base una serie di ricerche scientifiche che hanno evidenziato i legami tra il Parkinson e l’esposizione professionale ai pesticidi.

I danni provocati dai pesticidi sono ormai noti. Ricercatori e scienziati continuano a studiare gli effetti della contaminazione di questi veleni nella catena alimentare e negli esseri umani.

Il testo di legge francese specifica che con il termine pesticidi ci si riferisce ai prodotti destinati ad usi agricoli e prodotti per la manutenzione dei terreni, nonché a prodotti usati in ambito veterinario, biocidi e anti-parassitari, autorizzati o meno al momento della domanda.

La contaminazione con i pesticidi in ambito lavorativo, tale da portare poi alla malattia, avviene durante la manipolazione di questi prodotti, attraverso il contatto o l’inalazione, durante la distribuzione sulle colture, superfici, o con il trattamento su animali, quando si usano macchine agricole per la distribuzione dei pesticidi.

Assobio in Italia dichiara che: “Il riconoscimento ufficiale acquisisce un carattere importante sia a livello simbolico che concreto aprendo la possibilità a sostegni finanziari per l’incapacità degli agricoltori di continuare a lavorare. Un percorso cui dar seguito in Italia aggredendo radicalmente le problematiche legate a produzione, uso e residui dell’agrochimica. Un esempio da seguire, dunque, e una strada, quella dei pesticidi, da abbandonare”.

La rivista scientifica Annals of Neurology ha dedicato un articolo a questo tema. Dalle risultanze dell’articolo emerge che esiste di fatto una rapporto positivo tra il morbo di Parkinson e l’uso professionale di pesticidi, con una relazione di dose-effetto per il numero di anni di utilizzo, in particolare per gli insetticidi organoclorurati.

Già nell’aprile 2009, i ricercatori della UCLA (University of California, Los Angeles) avevano annunciato di aver scoperto un legame tra la malattia di Parkinson e due sostanze chimiche comunemente spruzzate sulle coltivazioni per combattere i parassiti.

Quello studio epidemiologico non aveva esaminato gli agricoltori che lavorano costantemente con i pesticidi, bensì persone che semplicemente vivevano vicino a dove i campi agricoli sono spruzzati con il fungicida Maneb e l’erbicida Paraquat. Si era riscontrato che il rischio per la malattia di Parkinson, per queste persone aumenta del 75 per cento.

Ora, uno studio ulteriore aggiunge due nuovi colpi di scena. Ancora una volta i ricercatori sono tornati nella fertile Central Valley della California, e per la prima volta hanno coinvolto un terzo pesticida, il fungocida Ziram, nella patogenesi della malattia di Parkinson. In secondo luogo, invece di osservare solo le persone che vivevano in prossimità di campi dove sono spruzzati i prodotti chimici, si sono stati valutati i luoghi in cui la gente lavorava, tra cui insegnanti, vigili del fuoco e impiegati che lavoravano nelle vicinanze, anche se non all’interno dei campi .

È stato riscontrato che l’esposizione combinata di Ziram, Maneb e Paraquat vicino a ogni luogo di lavoro aumenta il rischio di malattia di Parkinson (PD) di tre volte, mentre l’esposizione combinata a Ziram e Paraquat solamente, è stata associata a un aumento dell’80 per cento del rischio. I risultati appaiono nell’edizione corrente on-line della rivista European Journal of Epidemiology.

Mentre la Francia prende provvedimenti restrittivi in materia, grandi ritardi, in Italia, ci sono stati nel togliere dal mercato pesticidi ora considerati pericolosi, come il lindano e il Ddt. Ma ancora oggi c’è un pericolo che si aggira in Italia e in gran parte dell’ Europa: la Commissione Europea ha emanato nel 2009 un “Regolamento” sui pesticidi, nel quale elenca le sostanze più dannose che dovranno essere bandite dal mercato; oltre al fatto che su 100 sostanze pericolose sono vietate solo 22, considerate cancerogene o “interferenti endocrine”, tra queste compare il glufosinate, il cui impiego è elevato in particolare nelle colture transgeniche di mais, ma anche in viticoltura e nei frutteti e che verrà commercializzato fino al 1 ottobre 2017.

In Italia, il ministero della Salute ha revocato la sospensione cautelativa della vendita di glufosinate, autorizzando per cinque anni (con decreto del 27 aprile 2012) un prodotto fitosanitario al glufosinate ammonio “per vite e fruttiferi”.


Cosa si sapeva sulla correlazione pesticidi-parkinson in passato.

2005

Le persone che si espongono regolarmente a pesticidi per motivi di lavoro sembrano avere un rischio leggermente più elevato di sviluppare la malattia di Parkinson.
Tuttavia, lo studio condotto presso l’University of Washington a Seattle è stato di dimensioni relativamente piccole e la possibilità che la relazione tra una precedente esposizione a pesticidi e la malattia di Parkinson possa essere dovuta ad un caso non può essere la regola.

Precedenti studi di laboratorio hanno mostrato che alcuni pesticidi sono in grado di danneggiare il cervello.
Le persone che ingeriscono elevate quantità di pesticidi possono andare incontro a crisi convulsive, stato confusionale o coma.
Tuttavia, è meno chiaro quali siano gli effetti cronici delle esposizioni di basso livello.

Lo studio caso-controllo basato sulla popolazione ha avuto come obiettivo quello di analizzare la relazione tra esposizioni a pesticidi e malattia di Parkinson idiopatica.

Hanno preso parte allo studio 250 pazienti con malattia di Parkinson e 388 soggetti sani di controllo.
I partecipanti sono stati intervistati circa la loro esposizione a pesticidi.

E’ emerso che il rischio di sviluppare malattia di Parkinson tra coloro che erano esposti a pesticidi per motivi di lavoro, è risultato quasi doppio.
Per coloro che producono i pesticidi il rischio (odds ratio, OR) è stato pari a 2.07; per gli agricoltori, pari a 1.65; per allevatori e agricoltori, 1.10 e per coloro che lavorano nell’industria casearia, 0.88).

Non è stata riscontrata alcuna evidenza di rischio riguardo all’esposizione a pesticidi nell’ambiente domestico, sebbene sia stato osservato un aumento dell’odds ratio associato al consumo di acqua durante l’arco della vita (OR = 1.81).

Le percentuali di rischio per gli organofosfati hanno avuto un andamento analogo alla classificazione del rischio da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), con un rischio molto più elevato per il paration che non per diazinon o malation.
Inoltre, sono state riscontrate elevate percentuali di rischio per erbicidi (OR = 1.41) e paraquat (OR = .1.67).

L’esposizione occupazionale a pesticidi ha mostrato una relazione con lo sviluppo di malattia di Parkinson.

Tuttavia, l’assenza di associazione con le esposizioni domestiche e le deboli relazioni con l’esposizione di tipo rurale indica che i pesticidi non svolgono un ruolo eziologico importante in questa popolazione.(Xagena2005)

Firestone JA et al, Arch Neurol 2005; 62: 91-95 Neuro2005

2005

L’esposizione a pesticidi sembra rappresentare un fattore di rischio per l’insorgenza della malattia di Parkinson, ma al riguardo i dati epidemiologici non hanno fornito dati conclusivi.
Ricercatori della Washington University a Seattle hanno condotto uno studio finalizzato a studiare l’associazione tra esposizione a pesticidi e malattia di Parkinson idiopatica.

Hanno preso parte allo studio 250 pazienti con Parkinson.

I Ricercatori hanno valutato le dichiarazioni dei pazienti riguardo all’esposizione ai pesticidi.

L’odds ratio (OR) per l’esposizione occupazionale non è risultato significativo, ma ha indicato delle differenze tra le esposizioni occupazionali (persone che producono i pesticidi, OR = 2.07; agricoltori, OR = 1.65; allevatori ed agricoltori, OR = 1.10 e lavoratori caseari, OR = 0.88.

Gli OR per gli organofosfati sono risultati in linea con le classificazioni del rischio elaborate da WHO (World Health Organization), con paration molto più alto di diazinon o di malation.

E’stato anche riscontrato un OR elevato per gli erbicidi (OR = 1.41) e per il paraquat (OR = 1.67).

Non è emersa alcuna evidenza di rischio dovuta alle esposizioni domestiche ai pesticidi.

E’stato osservato un significativo aumento del rischio dal consumo di acqua per un lungo tempo (OR = 1.81).

Dallo studio è emerso che le esposizioni occupazionali ai pesticidi sono correlate alla malattia di Parkinson, mentre i rischi sarebbero bassi per l’esposizione domestica e rurale.(Xagena2005)

Firestone JA et al, Arch Neurol 2005; 62: 91-95 Neuro2005

2006

Un’esposizione cronica, a basso dosaggio, ai pesticidi è sospettata aumentare il rischio di malattia di Parkinson.

Uno studio, coordinato dall’Harvard School of Public Health a Boston (USA), ha esaminato in modo prospettico se gli individui esposti ai pesticidi presentassero un rischio di malattia di Parkinson più elevato rispetto a quelli non esposti.

I dati sono stati ottenuti dai partecipanti al Cancer Prevention Study II Nutrition Cohort, uno studio iniziato nel 1992 ed organizzato dall’American Cancer Society.
I 143.325 soggetti, che si sono presentati ad un esame di controllo nel 2001 e che al basale (1992) non manifestavano sintomi di malattia di Parkinson, sono stati inclusi nell’analisi.

L’esposizione ai pesticidi è stata riportata dal 5.7% (n = 7.864) dei partecipanti.

Gli individui esposti ai pesticidi presentavano una più alta incidenza (70%) di malattia di Parkinson rispetto ai soggetti non esposti (rischio relativo aggiustato = 1.7; p = 0.002).

Il rischio relativo per l’esposizione ai pesticidi è risultato simile tra gli agricoltori ed i non agricoltori. (Xagena2006)

Ascherio A et al, Ann Neurol 2006; Early view Neuro2006

2007

Uno studio, coordinato da Ricercatori dell’University of Aberdeen in Gran Bretagna, ha esaminato le associazioni tra malattia di Parkinson ed altre sindromi parkinsoniane degenerative, ed i fattori ambientali in 5 paesi Europei.

Sono stati analizzati 959 casi di parkinsonismo vascolare o farmaco-indotto, o con demenza.

Le analisi aggiustate di regressione logistica hanno mostrato un significativo incremento degli odds ratio per la malattia di Parkinson/parkinsonismo con una relazione esposizione-risposta per i pesticidi (bassa versus nessuna esposizione, OR=1,13; alta versus nessuna esposizione, OR=1,41; una volta versus mai, OR=1,35; più di una volta versus mai, OR=2,53).

L’uso di ipnotici, ansiolitici o antidepressivi per più di un anno ed una storia familiare di malattia di Parkinson, erano associati ad un aumento significativo del rischio.

Il consumo di tabacco è risultato protettivo (OR=0,50).

Le analisi compiute solamente sui soggetti con malattia di Parkinson, hanno offerto risultati simili.

Secondo gli Autori, esiste un’associazione tra l’esposizione ai pesticidi e la malattia di Parkinson. Inoltre, la ripetuta perdita traumatica della coscienza, è associata ad un aumentato rischio. (Xagena2007)

Dick FD et al, Occup Environ Med 2007; Published online first Neuro2007


20 luglio 2012

FONTE: quotidianolegale.it
http://www.quotidianolegale.it/1240/notizie/e-ufficiale-pesticidi-causano-il-morbo-di-parkinson.htlm

venerdì 20 luglio 2012

“Avvelenata dai pesticidi, lascio casa”

 
Rosy Zampieri: “Sono prigioniera dei vigneti e senza tutele”. Segnalazione all'Usl 7 e al Comune

CONEGLIANO - Prigioniera dei vigneti che circondano la sua casa, Rosy Zampieri ha deciso di trasferirsi per non aggravare le sue condizioni di salute. Rosy aveva deciso di raccontare la sua storia circa un mese fa, attraverso le pagine del nostro giornale, per denunciare una situazione che non è la sola a subire. Rosy vive sulla collina di Scomigo, immersa nel verde e anche se sembra una posizione invidiabile, in realtà per molti mesi all'anno deve chiudersi dentro casa oppure uscire con la maschera per non respirare l'aria intrisa di fitofarmaci. I proprietari dei vigneti che confinano con la sua proprietà sono piccoli viticoltori con i quali Rosy ha cercato di trovare un accordo affinchè limitassero i trattamenti o almeno li facessero quando lei non è in casa. Rosy è andata ad abitare in quella casa, che ha ereditato dalla sua famiglia, nel 2000. Intorno c'erano soltanto prati e alberi. “In 10 anni sono stata accerchiata dai vigneti – ci aveva raccontato – Ogni volta che l'atomizzatore passa tra i filari, cominciano i disturbi: bruciore alla gola, alle labbra, agli occhi. Certe volte mal di testa, nausea, dipende dal prodotto che usano”. Rosy è stata al pronto soccorso, si è rivolta all'Uls 7, ha chiesto l'intervento della polizia locale ed è stata ricevuta anche dal sindaco Zambon. “Sembra che nessuno possa fare nulla – dice – che non sappiano cosa fare”. Così dal 1 luglio Rosy si è trasferita, ha preso un appartamento in affitto perchè la situazione non era più sostenibile. “Il medico mi ha detto che ho subito uno stress psico-fisico notevole – spiega – e per non ammalarmi del tutto, ho deciso di trasferirmi almeno nei mesi più critici, quando l'aria è irrespirabile”. Le regole sull'uso dei fitofarmaci ci sono e sono contenute nel regolamento di polizia rurale e nel protocollo viticolo del Consorzio di tutela del Prosecco Docg. “Però non vengono fatti i controlli – dice Rosy – e mentre le medie e grandi aziende viticole stanno iniziando a capire la problematica, i piccoli produttori no”. E allora la gente che subisce tali situazioni è costretta ad autotutelarsi, anche allontanandosi da casa propria.

di Elisa Giraud

FONTE: Il Gazzettino di Treviso


Questo articolo è il seguito di quello pubblicato poco più di un mese fa (http://marco-lavocedellaverita.blogspot.it/2012/06/io-avvelenata-dai-fitofarmaci.html), ed è veramente triste vedere come si è evoluta la situazione di Rosy Zampieri, costretta a "fuggire" da casa per lunghi periodi per evitare le esalazioni nocive dei pesticidi.
Purtroppo sono sempre i più "deboli" a rimetterci, ovvero i malati.... e chi ha il coltello dalla parte del manico, in questo caso gli agricoltori che irrorano le proprie colture con pesticidi di ogni genere, agiscono indisturbati. Non ce l'ho nello specifico con gli agricoltori (i quali, però, dovrebbero essere consapevoli del fatto che certe sostanze chimiche sono nocive per l'ambiente e per la salute dell'uomo e quindi, in coscienza, dovrebbero regolarsi di conseguenza), quanto piuttosto con chi permette cose del genere. Occorrerebbero controlli più ferrei e regole più severe, altrimenti situazioni come quelle di Rosy si moltiplicheranno sempre più, sempre senza dimenticare che l'uso di pesticidi è SEMPRE e comunque dannoso per tutti, senza eccezioni.

Marco

giovedì 19 luglio 2012

"Così hanno inquinato mezza Italia"


PATRIZIA GENTILINI oncologo di fama spiega la situazione di Faenza e come si è arrivati ad avere le falde inquinate

(Ni.Ta.) Sullo scandalo delle falde acquifere inquinate nell’ex zona industriale interviene l’oncologa Patrizia Gentilini. Nata a Faenza, laureata a Bologna e specializzata in Oncologia a Genova e in Ematologia a Ferrara, Gentilini ha lavorato nel reparto di oncologia dell’ospedale di Forlì occupandosi di Prevenzione-Diagnosi precoce e di Terapia dei tumori. Vicepresidente dell’Associazione contro Leucemie, Linfomi, Mieloma (Ail, sez.Forlì-Cesena) fa parte di Medici per l’Ambiente (Isde Italia) partecipando a convegni nazionali e internazionali.

La notizia di un gravissimo inquinamento a Faenza da solventi, sostanze clorurate, idrocarburi policiclici e altre sostanze in falde acquifere, profonde anche 40-50 metri, desta profonda preoccupazione. Innanzitutto per i potenziali rischi per la salute umana, ma anche perchè appare, purtroppo, come l’ennesima conferma della tragica situazione in cui versa l’ambiente in cui viviamo, violato e contaminato per colpevoli e delinquenziali comportamenti umani. Se pensiamo poi che il ‘ricambio’ delle falde profonde avviene in media in 1400 anni, possiamo ben capire che il loro inquinamento è un evento di gravità inaudita; inoltre, di che ricambio potrà mai trattarsi se nulla cambia nel nostro sistema economico-produttivo?
Su quanto emerso, in assenza di dati analitici più precisi, si può dire che l’inquinamento delle falde da parte di organoclorurati (di solito tetracloro o tricloro etilene) in aree di vecchia industrializzazione, non è certo una novità per il nostro Paese. Situazioni analoghe sono alla ribalta della cronaca giudiziaria: una breve panoramica dell’attuale situazione è altamente sconfortante.
A Cremona è in atto un processo contro la Tamoil: cinque gli imputati dell’inchiesta per i quali è stato chiesto il rinvio a giudizio. Si tratta di dirigenti della compagnia petrolifera dal 1999 al 2007. L’accusa è avvelenamento delle acque destinate a uso umano.
In Veneto, nel maggio 2011, l’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente (Arpa) di Treviso ha riscontrato la presenza di mercurio nei pozzi dei comuni di Preganziol, Treviso, Casier e Quinto. Stando ai dati diffusi, su 518 pozzi ben 137 risultavano avere concentrazioni di mercurio al di sopra dei limiti consentiti.
Non se la passa meglio l’Abruzzo con l’inquinamento di acque destinate al consumo umano a Bussi e nella Val Pescara dove si è verificato un disastro ambientale di proporzioni inimmaginabili per le potenziali conseguenze sulla salute di 500mila cittadini: nelle falde sono stati riscontrati cloroformio, tetracloruro di carbonio, esacloroetano, tricloroetilene, triclorobenzeni, metalli pesanti (alcuni con livelli 3 milioni di volte superiori ai limiti di legge).
Invece per i pesticidi una recente indagine Ispra (Istituto superiore protezione e ricerca ambientale) ha evidenziato per le acque superficiali che il 47.9% dei campioni esaminati è contaminato da pesticidi (presenti in quantità superiore di limiti di legge nel 31,7%); e per le acque sotteranee una contaminazione nel 27% dei casi (presenti in quantità superiore ai limiti di legge nel 15.5%). Quest’indagine ha identificato nelle acque esaminate ben 131 di queste sostanze e ancora una volta ‘maglia nera’ della contaminazione è la Pianura Padana, per l’agricoltura intensiva qui praticata da anni. Si pensi che nelle falde profonde si ritrovano inquinanti vietati da molto tempo come l’atrazina, molecola al bando da decenni, ma tuttora presente nell’ambiente. Le persone dovrebbero essere informate sul fatto che si tratta di sostanze pericolose anche in quantità infinitesimali e che l’esposizione umana a piccole, quotidiane dosi a questi veleni rappresenta un pericolo gravissimo per la salute, specie per donne in gravidanza, feti e neonati.
In questo panorama desolante qualche motivo di speranza viene da oltreoceano: nel 2011, in Usa, la Exxon Mobil è stata condannata a corrispondere un risarcimento di 1,5 miliardi di dollari per un grave caso di inquinamento del suolo e delle falde acquifere, rendendo giustizia ai cittadini coinvolti. Avremo mai soddisfazioni di questo livello anche in Italia?

di Patrizia Gentilini 

 
12 aprile 2012

FONTE: La Voce


In persone molto sensibili ai problemi ambientali, articoli come questo fanno accaponare la pelle.... d'altro canto è bene che certe cose si sappiano e l'oncologa Patrizia Gentilini stende un quadro davvero preoccupante per quanto riguarda l'inquinamento ambientale che, per usare le sue stesse parole,
viene continuamente "violato e contaminato per colpevoli e delinquenziali comportamenti umani". Potrà mai cambiare tutto questo? Si potrà arrivare, un giorno o l'altro, all'abolizione TOTALE di tutte le sostanze chimiche dannose per l'ambiente e la salute dell'uomo che, ahinoi, vengono adoperate massicciamente nelle coltivazioni intensive (e non solo)? Il "biologico" che costituisce ancora l'eccezione, potrà mai diventare la regola? Personalmente è quello che io mi auspico accada con tutto il cuore, perchè continuare a utilizzare sostanze chimiche nocive significa andare contro la nostra stessa natura, significa VIOLENTARE un ambiente che non ha bisogno di tutto questo!
Tutto si paga, non dimentichiamocelo, e a fare le spese di questo uso dissennato di prodotti chimici inquinanti saremo immancabilmente noi uomini, sopratutto le generazioni future, che si ritroveranno in "eredità" gli scempi perpetrati dalle generazioni precedenti.

Marco

martedì 17 luglio 2012

Ci sono malati invisibili, io chiedo aiuto per loro


Conosco una ragazza che soffre di una malattia che condanna alla solitudine; una malattia creata da questo progresso che è il bene e il male del nostro tempo. E' l'MCS in lei aggravata dalla vasculite orticarioide.
Se si ha una famiglia che, all'interno della propria casa, ti difende da tutti i pericoli che sono in agguato nel mondo esterno e che gli altri non hanno nemmeno idea di propagare con i loro profumi, detersivi, ammorbidenti, fumo di sigarette e quant'altro è deleterio per questi malati, si può avere una vita quasi accettabile. Ma, quando questo viene a mancare, è un vero disastro.
Purtroppo ci vuole un grande amore e un grande cuore per rinunciare a quelli che si reputano i propri sacrosanti diritti, anche se le rinunce si limitano ad usare determinati prodotti per l'igiene personale e della casa invece che altri.
Quando questo avviene la vita del malato diventa un inferno ed inoltre questo comportamento autorizza tutti quelli che gravitano intorno a lui, come parenti, vicini, addetti alla pulizia del condominio etc., a non rispettare il suo stato di salute e i suoi diritti di malato. Molti ignorano questa malattia, anche il Servizio Sanitario Italiano, in quanto essa è riconosciuta solo da poche regioni e la Puglia non fa parte di queste. Molti di quelli che la conoscono preferiscono non accettarla e attribuirla a fissazioni del malato: questo è molto più comodo per scaricarsi delle proprie responsabilità. Chiedo aiuto per questi malati innanzi tutto ai responsabili della Sanità; sappiate che, anche quando arrivano al Pronto Soccorso, il personale non sa dove indirizzarli perchè per loro non esistono strutture adeguate ed essi non possono assolutamente entrare in un normale ospedale. Chiedo aiuto a chi abita loro vicino, perchè con un po' di accortezza e di umanità rendano meno difficile la loro giornata. Tornando alla mia amica, chi non le è amorevolmente vicino non sa assolutamente quanto amore ella possa dare in cambio della sola attenzione e considerazione che si da alla sua persona e alla sua malattia. Ogni giorno, volente o nolente, è costretta a scappare di casa per andare vicino al mare, l'unico posto dove le è possibile disintossicarsi, ma al rientro ricomincia tutto daccapo.

lettera firmata
Cassano delle Murge (Bari)

4 maggio 2012

FONTE: Gazzetta del Mezzogiorno


Pubblico questa lettera indirizzata alla Gazzetta del Mezzogiorno, nel quale emerge chiaramente l'amarezza e la preoccupazione della persona che l'ha scritta nei confronti dell'amica malata di MCS e, credo io, nei confronti di tutti coloro che sono colpiti da questa patologia, che ancora troppo spesso sono lasciati soli a loro stessi dalle istituzioni e sovente anche dalle persone a loro più vicine che, per ignoranza o per chiusura mentale, non riescono a crederli e a comprenderli.
L'amarezza di questa persona è anche la mia amarezza, perchè essere malati è già di per sè una gran brutta cosa, ma esserlo senza essere creduti, compresi e aiutati, è una cosa tremenda, una Croce forse ancor peggiore della malattia stessa. Quanta ottusità, quanta chiusura mentale c'è ancora in tante persone.... Non auguro davvero a nessuno di trovarsi in certe situazioni, cose talmente brutte e desolanti da far fatica anche a parlarne. A tutti i malati incompresi va la mia MASSIMA solidarietà, sempre nella speranza che i cuori e le menti delle persone si aprano almeno un pò.

Marco

domenica 15 luglio 2012

La mia guerra al metallo killer


Intervista esclusiva da Londra il col. Calcagni, 43enne di guagnano, mentre lotta per sconfiggere gli effetti dell'uranio impoverito, confida al nostro settimanale:

"ORA VIVO PER AIUTARE I COLLEGHI CONTAMINATI"


Carlo Calcagni: "ORA MI BATTO PER CHI SOFFRE COME ME"

 

Parla l'On. Falco Accame 
Responsabilità politiche e militari: leggerezze fatali

Dal 1983 l’on. Falco Accame, ex ufficiale superiore di Marina ed ex-deputato alla Camera, opera per la tutela dei militari impegnati nelle varie operazioni estere. Con l’Anavafaf - Associazione Nazionale Assistenza Vittime Arruolate nelle Forze Armate e Famiglie dei Caduti - di cui è presidente, si occupa tra l’altro delle conseguenze dell’uso di proiettili contenenti uranio impoverito nelle campagne a cui hanno partecipato soldati italiani. Secondo quanto egli stesso afferma, “era possibile intuire la pericolosità dell’uranio impoverito già all’epoca della prima Guerra del Golfo (1990-1991), soprattutto in seguito all’allarme che suscitò l’incidente dell’11 luglio 1991 a Camp Doha in Kuwait quando, a causa di un incendio, esplosero una grande quantità di proiettili e carri armati all’uranio impoverito”. Di certo, ben informati sul rischio erano gli americani. A dimostrarlo, il loro equipaggiamento durante la missione in Somalia del 1993: tute, maschere e guanti per proteggersi dalle micro polveri letali in grado di provocare l’insorgere di linfomi e tumori. Al fianco dei soldati americani, in Somalia, c’era però l’esercito italiano che, ignorando del tutto i pericoli della sostanza, lavorava a mani nude. Stando ai documenti ufficiali, infatti, l’Italia è venuta a conoscenza degli effetti devastanti che l’uranio impoverito poteva avere sulla salute dei militari, solo nel novembre 1999. Un ritardo di ben sei anni rispetto agli americani. “Quello dell’uranio impoverito - continua l’On. Accame - è un problema di responsabilità politiche e militari per non aver applicato tempestivamente le norme di precauzione necessarie; una leggerezza che ha messo a rischio la salute di moltissimi militari italiani coinvolti nelle operazioni all’estero. Stando agli studi sinora effettuati, il legame tra i tumori e l’uranio impoverito rimane nel campo probabilistico, al pari del nesso tra tumori e fumo. Questo, comunque, non giustifica la mancata precauzione”. Quanto alle cifre, Accame si attiene ai dati esposti dal col. Medico Roberto Biselli, Direttore dell’Osservatorio epidemiologico della Difesa. Durante la Commissione Parlamentare d’inchiesta del 22 febbraio scorso, infatti, il col. Biselli fa presente che il numero dei casi di malattia e decessi notificati dalle singole Forze Armate all’Osservatorio, relative alle patologie neoplastiche occorse nel personale militare dal 1991 al 21 febbraio 2012, ammontano in totale a 3761 unità: 698 di essi riguardano il personale che ha preso parte a missioni all’estero e 3063 riguardano militari che non hanno mai effettuato attività fuori area. I decessi, invece, sono complessivamente 479, di cui 96 verificati per persone che hanno operato in missioni all’estero e 383 per persone che sono rimaste in patria. L’on. Accame, però, sottolinea si tratta di dati “parziali perché considerano solo i militari in servizio, escludendo sia i militari in congedo (ricordiamo che un tumore può avere un periodo di latenza di 15-20 anni) che tutti i civili che hanno partecipato alle missioni estere con Onlus o altre organizzazioni quali il Ministero dell’agricoltura, la Presidenza del Consiglio, la Croce Rossa e così via”.

Il Prof Minelli: in alcuni pazienti il male rimane latente per anni

Le varie commissioni che si sono susseguite dal 2000 ad oggi non hanno mai documentato la relazione di causa-effetto tra l’esposizione all’uranio impoverito e l’insorgere di patologie. Per ovviare a questa lacuna, in veste di Consulente della commissione, il prof. Mauro Minelli, nel gennaio 2011 propose la creazione di una bio-banca all’interno del Centro Imid di Campi Salentina di cui è direttore. Sarebbe la prima bio-banca su tutto il territorio nazionale con il compito di monitorare i soldati nelle missioni all’estero, attraverso il prelievo e l’archiviazione di materiale cellulare (sangue, siero, urine, sperma e capelli, che sono grandi accumulatori di metalli) in diverse fasi: prima della partenza, durante la missione e precisamente dopo tre mesi, e al loro rientro. Il prof. Minelli, tiene a sottolineare che “l’uranio impoverito, piuttosto che agire in maniera diretta, crea un’azione di danno indiretta in quanto rende l’organismo più vulnerabile, più sensibile e, dunque, iperattivo. In questa iperattività, ogni volta che la sostanza (fattore epigenetico, o esterno) entra in contatto con l’organismo (fattore genetico), quest’ultimo subisce delle modificazioni a livello cellulare che agevolano l’insorgere della malattia. A creare differenze tra caso e caso è il fattore genetico: esistono, infatti, pazienti nei quali la malattia rimane latente per anni”.

Intervista Esclusiva / Parla il Colonnello originario di Guagnano contaminatosi in una missione all’estero

UN MESSAGGIO DA LONDRA: “CHI COMPIE IL PROPRIO DOVERE PER LA PATRIA MERITA ONORE E RISPETTO”

Siam pronti alla morte, l’Italia chiamò”… Quante volte l’abbiamo urlato nei campi di calcio? Quante volte abbiamo sorriso pronunciando questa frase? E, soprattutto, quanti hanno meditato sul messaggio che essa racchiude? C’è, però, chi questa frase non l’ha solo intonata dinnanzi ad un tricolore con la mano sul petto, ma si è ritrovato a viverla. Così è stato per il Col. R. O. Carlo Calcagni, il militare originario di Guagnano ammalatosi a seguito di una missione militare all’estero. Quasi stordisce quell’intreccio di decisione e tranquillità con cui ci racconta il suo calvario dalla clinica londinese di Breakspear Medical Group, dove è ricoverano da tre settimane. Pacato, sereno, emotivamente controllato. Di fronte alla malattia mostra quella dignità che lo Stato italiano spesso non riconosce alle vittime dell’uranio impoverito.
Sedici anni fa, la passione per il suo lavoro lo aveva visto in prima linea durante la missione di pace in Bosnia; oggi, la passione per la vita lo mette in prima nella sua personale guerra contro il metallo killer.

Da un documento del 1993 risulta che il Governo Usa aveva istruito il comando militare americano (che coordinava la missione in Somalia) circa i rischi connessi all’uranio impoverito. Dalle testimonianze di chi ha prestato servizio in Somalia, Iraq, Bosnia, Kosovo e Afghanistan emerge che mentre i militari americani indossavano tute speciali, guanti, maschere e bombole di ossigeno, gli operatori italiani effettuavano le bonifiche ambientali e maneggiavano materiale radioattivo senza protezione adeguata. Col. Calcagni, l’Italia quando è venuta a conoscenza di questo rischio?
I nostri vertici sapevano che determinate zone potevano essere pericolose per la salute dei militari, eppure questo rischio è stato ignorato, molto probabilmente perché l’Esercito Italiano non disponeva degli equipaggiamenti di protezione necessari. Tremila uomini era l’impegno che l’Italia aveva preso con la Nato; un impegno che i vertici italiani hanno mantenuto, con il rischio personale dei militari. La mia missione internazionale di pace ha avuto inizio in Bosnia nel gennaio 1996, in qualità di pilota elicotterista addetto al soccorso, ed è durata sei mesi. Generalmente, chi opera in un simile contesto si trova ad affrontare tutto ciò per cui è stato addestrato; noi, invece, abbiamo dovuto combattere con un nemico invisibile che ha fatto molte più vittime delle pallottole.

Quando ha scoperto di essere stato contaminato dall’uranio impoverito?
Nell’ottobre 2002, dopo il controllo annuale effettuato presso l’Istituto Medico Legale dell’Aeronautica di Roma per il rinnovo dell’idoneità al volo, sono stato trasferito a Viterbo per svolgere l’attività di istruttore di volo. Qui ho iniziato ad accusare spossatezza, eccessiva sudorazione e anche nelle gare di ciclismo la mia rendita calava. Decido, così, di fare dei controlli privati a Lecce. Il 18 novembre inizia la mia odissea. Una prima analisi delle urine denota la presenza di una serie di metalli tossici in quantità differenti: alluminio, cadmio, piombo, antimonio, arsenico, bario, cesio, nichel, tallio, stagno, mercurio e tungsteno. In seguito, da esami medici più approfonditi è venuta fuori una diagnosi complessa che vede: mielodisplasia, encefalopatia tossica da metalli pesanti, ipotiroidismo, ipogonadismo, polineuropatia tossica, nitrosamine addotte al Dna, disfunzione del sistema simpatico e parasimpatico, disautomia associata a Sindrome da fatica cronica, ipossia dei tessuti e Hypercapnoea, Sindrome di Gilbert, perdita della funzione vasomotore e di termoregolazione in tre arti, insufficienza renale, miocardite da sostanze tossiche e epatopatia cronica da contaminazione di metalli pesanti. Si trattava, quindi, di un malessere oramai cronicizzato che, pur non essendo stato rilevato in nessun altro controllo precedente, era senza dubbio presente da molto tempo.

Qual è l’iter delle cure cui è costretto a sottoporsi?
Ogni giorno devo fare 6 iniezioni, 4 ore di flebo, 18 ore di ossigenoterapia, 1 ora di infrarossi, la camera iperbarica e ben 300 compresse. Ogni lunedì e giovedì, poi, mi spetta una auto-emotrasfusione.

In seguito alla diagnosi, cosa ne è stato del suo lavoro?
Dopo aver comunicato gli esiti degli esami al mio comandante, ogni comunicazione con il mio reparto è sembra annullarsi. Nessuna chiamata, nessuno chiede informazioni sulla mia condizione. Sentivo di essere per loro un semplice numero adoperato per colmare questo o quell’altro turno. Tutto questo faceva male, ma feriva più il tentativo, da parte dei vertici, di negare la tossicità dell’uso dell’uranio impoverito. Il 30 ottobre 2007 (giorno del mio compleanno) mi hanno riformato con il 100% di invalidità. Da quel momento, per il Ministero, le relazioni interpersonali sono finite. Dopo cinque anni di battaglie contro la malattia e contro il sistema, ho ricevuto il riconoscimento della causa di servizio. Ora, da tempo, mi dedico allo studio delle leggi, di circolari e quant’altro per aiutare gratuitamente i miei colleghi e i parenti delle vittime di uranio. Successivamente è nata l’Associazione “Ruolo d’onore Carlo Calcagni” con lo scopo di far conoscere i diritti di chi è stato contaminato dal metallo killer ed aiutare chi era nella mia stessa situazione. È un impegno che, oltre a gratificarmi, sposa fedelmente il mio motto “donarsi, senza mai nulla pretendere”. Nell’ottobre del 2010 è stata istituita la Commissione d’Inchiesta sull’uranio impoverito, di cui io sono stato nominato consulente proprio in virtù della mia esperienza e delle conoscenze normativo-legislative acquisite. Nel frattempo, sono rientrato in servizio grazie ad una legge che mi permette di essere richiamato di anno in anno e, dunque, di avanzare di carriera. Attualmente, sono al mio terzo anno di reimpiego e sono stato promosso a Colonnello.

Nessun funerale di Stato per le vittime dell’uranio impoverito. Cosa ha da dire a riguardo?
In questi anni, purtroppo, mi è capitato di tirar giù dall’aereo qualche collega nel tricolore. Gli sfortunati che muoiono durante le missioni, vengono riconosciuti come figli della patria e proprio dalla madrepatria ricevono onori e medaglie. Chi invece, contaminato dall’uranio impoverito, rientra dalle aree di conflitto con le proprie gambe per poi soffrire in silenzio, è condannato a non ricevere né medaglie, né riconoscimento morale. Ed è triste dal momento che, in ogni caso, si tratta di uomini morti per aver compiuto il proprio dovere.

14 luglio 2012

FONTE: L'Ora del Salento

venerdì 13 luglio 2012

Salvo Cannizzo, ex marò malato di tumore. «Siamo duemila in Italia, sciopero per tutti»


Era nel battaglione San Marco, adesso ha un grave tumore al cervello. Gli restano pochi mesi di vita, ma ha deciso di non curarsi «per far emergere la situazione di noi ex militari vittime dell’uranio in Kosovo tra il 1999 e il 2001». In congedo dal 2011, oggi parla di quanto ha visto allora: carri dissolti dalle radiazioni e americani vestiti «da astronauti» per raccogliere delle munizioni. «Sono diventato militare per soldi. Ma lo rifarei, perché amavo il mio lavoro». Anche se, di guerre «non giuste» ne ha viste tante in 17 anni.

«Nel 2000 a Djakovica, in Kosovo, ho visto un carro bombardato e con la carrozzeria dissolta. E degli americani, tempo dopo, che con una tuta da astronauta e un autorespiratore, portavano via delle munizioni. Ora so che era per le radiazioni dell’uranio impoverito, ma a quei tempi io e i miei compagni respiravamo quell’aria a pieni polmoni».
Salvo Cannizzo, 36 anni, è un sergente in congedo da settembre 2011. Era nel battaglione San Marco, famoso tra i vari corpi della Marina militare italiana per la preparazione durissima, tanto da essere paragonato ai marines americani. «Ho un glioblastoma multiforme, un tumore al cervello di quarto grado. Ma ho deciso di non fare la chemio: voglio vedere se al ministero hanno il coraggio di lasciarmi morire, sono duemila i militari nella mia situazione in Italia. E presto moriremo tutti, vogliamo almeno un indennizzo» dichiara Salvo che, secondo i calcoli dei medici che lo hanno già operato più volte a Milano, ha solo tre mesi di vita. Era a capo di una squadra di nove elementi fino al settembre 2006, quando fu operato una prima volta e trasferito, da impiegato civile, al ministero della Difesa. Ora che non è più un militare, può parlare liberamente, e non ha dubbi: «L’uranio degli americani ha fatto ammalare di tumore me e quattro dei miei compagni di squadra, in Kosovo, dove sono stato quattro volte dal 1999 al 2001. Senza che nessuno ci dicesse del pericolo, che gli americani invece conoscevano».

Salvo ci incontra nella palestra di un amico: ha difficoltà a muoversi, e cammina su una sedia a rotelle ma «vengo qui per svagarmi, dentro questa palestra sono cresciuto. Ho ancora il record di 128 kili di panca». Sorride e, prima di iniziare a parlare, mi invita a toccargli la testa. «Purché non ti impressioni, senti? Non ho la calotta cranica, devo subire un intervento per mettere una protesi in titanio». Operato ad aprile di quest’anno, Salvo ha re-iniziato a poter parlare solo dopo due mesi di logopedia, e ha ancora difficoltà di lettura che, dice «dipendono dalla parte sinistra del cervello, quella che mi hanno in parte asportato». Viene da Borgo Librino, dal 2008 al 2010 è stato consigliere di quartiere nella nona municipalità a Catania e, prima di diventare un marò, ovvero un soldato sceltissimo specializzato, era un ragazzo come tanti. «A diciotto anni, finita la scuola, ho iniziato a lavorare come restauratore. Cinquantamila lire a settimana. Ho resistito un anno e poi sono partito volontario nell’esercito».

Inizia così, nel 1995, la vita militare di Salvo Cannizzo. Diplomatosi al Cannizzaro, non riusciva a guadagnare abbastanza per rendersi indipendente. «La mia scelta è stata motivata solo da motivi economici ed è una cosa che non ho mai nascosto, nemmeno nei colloqui nell’esercito. Ma la mia sincerità, in qualche modo, è stata premiata: ho sempre avuto valutazioni eccellenti o sopra la media e, quando sono entrato nel battaglione San Marco, le cose sono cambiate. Basco, divisa militare e un rapporto strettissimo con i miei compagni, che ho sempre chiamato fratelli. Amavo il mio lavoro, sentivo lo spirito di corpo». Così Salvo inizia a guadagnare «già un milione e quattrocentomila lire nel 1997, quando ho deciso di sposarmi». Due figlie dal primo matrimonio, finito nel 2006 «quando è iniziata la mia malattia». S’è risposato in chiesa e considera la figlia della sua seconda moglie «come se fosse mia». Ma, in caso di morte, «la reversibilità della pensione andrebbe alla mia prima moglie», perché la lunga pratica del divorzio non è ancora conclusa. Una pensione che, al momento, è esattamente di «800 euro e 17 centesimi, una cifra che per uno abituato a guadagnarne 2800 al mese circa, più le missioni, è una cifra bassissima. Anche perché devo gli alimenti alla mia ex e ho un affitto da pagare» ci spiega. Quello economico è un problema di estrema urgenza per Salvo, che ha denunciato la sua situazione pubblicamente, ricevendo incoraggiamenti per sottoporsi comunque alla chemio e alle altre terapie dai suoi ex compagni. «Uno di loro è già morto, per un cancro al pancreas. Non so quale sia la casistica, magari un malato di tumore ogni mille abitanti, ma al ministero della Difesa, per riconoscerci la causa di servizio, hanno bisogno che cinque malati di tumore in una squadra di appena nove persone dimostrino il rapporto causa effetto con almeno dieci anni di letteratura scientifica». Salvo, al momento, ha ricevuto anche «promesse di aiuto da parte di alcuni politici», anche se preferisce non fare nomi.

«Potrei vivere ancora tre anni se decidessi di sottopormi alla chemio. Ma, dall’ultima operazione che ho fatto ad aprile, quest’anno non sono più andato ad eseguire i controlli, non posso permettermi un viaggio a Milano dove sono in cura, ho finito i risparmi». E pensare che quando Salvo era un marò, un soldato scelto spesso mandato in missione «anche dai servizi segreti, per scortare ambasciatori e ministri anche se queste missioni non risultano nel mio stato di servizio», guadagnava molti soldi. «Non ho mai capito l’ammontare della paga per le missioni non ufficiali: arrivava un assegno, con su scritto “affari speciali” e la cifra. A volte duemila, altre volte ottomila euro». Per le missioni in Kosovo, invece, Salvo ha ricevuto «72 dollari al giorno. E ho ricevuto una medaglia, una croce di guerra, perché nel 2000 ho fatto un record, con tre missioni consecutive. Ma non me ne pento: dovevo comprarmi la casa».

«Purtroppo, un militare in carriera come ero io non poteva rifiutarsi di andare nelle missioni, anche se di cose ingiuste ne ho viste molte». Per Salvo l’esperienza del Kosovo è stata quella più traumatica. Racconta di «una guerra ingiusta, perché cacciavamo i legittimi abitanti per far spazio agli ultimi arrivati». Gli americani, spiega Salvo, pur di consumarle e rinnovare l’armamentario «buttavano centinaia di bombe, spesso senza inneschi per non fare vittime. Per loro è un business e i nuovi armamenti in quel caso li pagava la Nato». E gli italiani? «Non siamo al loro livello, ma siamo i primi produttori di mine antiuomo. E ancora oggi non siamo a conoscenza di quanti militari italiani siano impiegati in giro per il mondo. Sapevi che al momento c’è un gruppo di sommozzatori in Somalia?». Adesso aspetta qualcosa, un segnale di attenzione. «Ci sono decine di class action contro l’uranio impoverito, ma sappiamo già che non ci pagheranno mai: aspettano che moriamo per non doverci riconoscere due milioni di euro di indennizzo». E, se non dovesse farcela, almeno avrà scelto «quando morire, visto che non posso più scegliere quando vivere».

12 luglio 2012

di Leandro Perrotta


FONTE: ctzen.it
http://ctzen.it/2012/07/12/salvo-cannizzo-ex-maro-malato-di-tumore-siamo-duemila-in-italia-sciopero-per-tutti/

 

Dopo il post su Carlo Calcagni, pubblico ora la dolorosa vicenda di Salvo Cannizzo, anch'egli vittima dell'uranio impoverito inalato nelle missioni in Kosovo a cui ha partecipato, ed ora con un tumore al cervello in fase avanzata che, a detta dei medici, gli darebbe solo qualche mese di vita.
Ho appreso anche che Salvo si è recentemente incatenato in segno di protesta in via Etnea davanti la sede catanese dell’Ars, perchè non gli è stato riconosciuto che l'uranio impoverito inalato sia la causa del suo tumore, sebbene ben 5 dei 9 colleghi che erano con lui in queste missioni siano nelle medesime condizioni (vedi: http://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/catania/notizie/cronaca/2012/2-luglio-2012/i-soldi-non-bastano-ex-maro-afflitto-tumore-fa-sciopero-chemio-201842006997.shtml)!
Non ci sono davvero parole per descrivere tutto ciò..... soltanto tanta amarezza, incredulità e anche rabbia per le ingiustizie che questi ragazzi devono subire!

Marco

mercoledì 11 luglio 2012

Carlo Calcagni abbandona il ciclismo per vincere la sua gara più importante

Campione sulle strade e fuori, l'elicotterista, vittima dell'uranio impoverito nelle missioni in Bosnia, abbandona le corse con un messaggio su facebook, per salvaguardare il cuore ed affrontare al meglio le delicate cure.

GUAGNANO - Il ciclismo è stato il suo karma per anni. Ma per Carlo Calcagni è arrivato il momento di scendere dalla sua bici da corsa. Niente più saliscendi per strada, sprint, frenate sulle curve, cuore e sudore sui pedali per raggiungere il traguardo, prima degli altri. C'è una lotta più importante, una gara estrema da affrontare nel suo lungo e personalissimo Calvario e serve tutto il suo talento, la sua determinazione, quella che lo ha sempre contraddistinto.

Lui non è uno qualunque: è abituato a calcare la terra, saggiando l'asfalto, con la stessa abilità con cui ha solcato i cieli, nutrendosi di nuvole e di visuali privilegiate. Un uomo dalle mille vite, forse dalle mille risorse, che è stato soprattutto un pilota, prestato alle due ruote, per cause di "forza maggiore", verrebbe da dire. "Fatalità" spiegherebbe qualcuno, provando a chiuderla lì con vergognoso pressappochismo. Non può bastare. Troppo comodo argomentarla così. I discorsi sarebbero lunghi, complessi. Poco concilianti.

Fatto sta che un campione vero ha deciso di lasciare il ciclismo. Lo ha annunciato con una lettera amara, struggente, affidata ad un social network, dove prova a spiegare le ragioni, fin troppo evidenti. Quelle della testa, che comanda e con ragionevolezza dice che è tempo di farlo, e quelle del cuore, che un po' su quella bici, fedele amica di anni di sofferenza, vorrebbe ancora pedalare e dar fiato alle gambe. Cuore e sudore, ancora una volta, ad issarsi sui pedali.

La notizia arriva da quel podio "scomodo" che è una clinica inglese, dove il maggiore ed elicotterista dell'esercito si reca sempre più spesso per sottoporsi a delicate e specialistiche terapie. Non è una storia qualunque la sua, da quando quel 30 ottobre 2007, è stato riformato per il 100% a causa di un'invalidità sopraggiunta, frutto di gravi infermità contratte in missioni internazionali.

Era stato in Bosnia, dove c'era la certezza, come in molti paesi dell'Est, che i contingenti americani avessero utilizzato l'isotopo u-236 per rafforzare l'effetto dei propri proiettili. Più di cinquanta ore di volo, per preparare le mosse, inalando una polvere dannosa, che oltre ad impastargli la bocca, gli ha avvelenato il corpo. Il suo sangue e i principali organi vitali hanno subito una contaminazione da "metalli pesanti", tossici sia a livello fisico, sia a livello chimico, sostanze non biodegradabili ed altre radioattive.

Le infezioni accertate riguardano fegato, midollo, tiroide, ipofisi, bronchi e reni. Solo dopo quattro anni, diversi accertamenti e varie biopsie, si è scoperto il nesso tra la sua patologie fisiche e l'esperienza bosniaca. Da allora, è iniziato il suo pellegrinaggio in Inghilterra: al dolore fisico, si è aggiunta la problematicità di dover scontare le controversie della burocrazia italiana, che non lo hanno facilitato nelle sue condizioni di "malato". Questo non è bastato neanche a togliergli la voglia di rappresentare davanti alle istituzioni la voce dei diritti di tutti quei soldati, che, come lui, vivono lo stesso dramma e su cui spesso e volentieri, anche nelle "stanze dei bottoni" (o soprattutto lì), si vuol far calare una cortina di omertà.

Le due ruote sono state l'occasione del suo "riscatto", anzi, forse semplicemente della sua "seconda vita" o della "terza". Per un uomo dalle mille vite non può essere altrimenti. La passione si è unita alla volontà di continuare a godere delle emozioni agonistiche, nonostante la "retrocessione" tra i cosiddetti "diversamente abili". Calcagni oggi abbandona la bici, per via della fatica a cui il suo corpo, a causa della malattia, è costantemente sottoposto e, sebbene il desiderio di combattere sia ancora grande. C'è un limite che non può essere umanamente valicato.

Il militare ringrazia, nella sua lettera, quanti lo hanno sostenuto, gli avversari sulla strada, i compagni di squadra, la sua famiglia, gli amici, ripercorrendo idealmente gli anni trascorsi in sella, dove sono arrivate tante soddisfazioni agonistiche e simboliche con ben 300 vittorie, 15 titoli di campione italiano assoluto e 2 mondiali.

"Il mio cuore - scrive - va salvaguardato, la mia vita è a rischio, non è più in grado di resistere ai ritmi imposti dagli allenamenti e dalle gare; dunque è questo il momento della scelta, il momento di fare una rinuncia dal sapore amaro. Lasciare le corse e pensare sempre di più a stare in pace con il mio fisico che ha bisogno di assoluto relax".

In realtà, Calcagni abbandona solo fisicamente la bici, perché un corridore vero non scende mai di sella, nemmeno quando la salita appare la peggiore da scalare, l'asfalto brucia le restanti forze e le ruote s'inceppano come ingranaggi impallati. Mette cuore e fiato, oltre la potenza delle gambe, che non reggono il ritmo dei pedali. La sua gara continua. La sua sfida è ancora da affrontare. E lui, c'è da scommetterlo, al traguardo vuole arrivare sollevando ancora le braccia. Perché cuore e sudore spingono oltre ogni ostacolo.

29 giugno 2012

di Mauro Bortone

FONTE: lecceprima.it
http://www.lecceprima.it/sport/carlo-calcagni-abbandona-il-ciclismo-per-vincere-la-sua-gara-piu-importante.html


Spiace apprendere questa notizia, cioè la rinuncia di Carlo Calcagni alla pratica del suo sport tanto amato, ma sinceramente non posso fare altro che condividerla.
Io stesso ho praticato e amato tanto il ciclismo e anche io ho dovuto rinunciarvi per questioni di salute, quindi posso bene immaginare il suo stato d'animo in questo momento..... ma la vita va comunque avanti, ed essa va sempre e comunque preservata e tutelata. Come dice giustamente l'articolo, ora c'è un altra salita da scalare, ben più ardua e difficile, quella della malattia, ed io sono più che convinto che la grinta che il Maggiore Calcagni riversava sui pedali, saprà ora essere indirizzata per cercare di contrastare e di vincere la malattia da cui è colpito. La salita non è finita, la battaglia nemmeno.... cambia soltanto il "mezzo" con cui la si affronta, ma grinta, forza e determinazione sicuramente non mancheranno.
Buona fortuna per tutto Maggiore Calcagni !

Marco