domenica 30 marzo 2014

Daniela scrive fiabe per la figlia e aiuta gli altri malati. E lo fa solo con i suoi occhi

Dal 2005 Daniela è imprigionata nel suo corpo. È affetta dalla sindrome di Locked-in, una malattia sconosciuta che l’ha spinta, insieme a suo marito, a fondare due associazioni per far conoscere meglio la sua condizione

Dall’agosto 2005 Daniela sbatte solo le ciglia. È così che comunica, scrive favole e si occupa delle due associazioni fondate insieme a suo marito Luigi Ferraro. Andò in coma all’età di 39 anni poco dopo la nascita della seconda figlia (il primo aveva allora dieci anni). Accadde tutto improvvisamente: Daniela fu colpita da emorragia cerebrale.

La diagnosi fu un macigno, infrangibile per il medici. In questi casi si parla di stato di minima coscienza o di stato vegetativo. Luigi passò un anno accanto alla moglie, non lasciandola mai. «Più il tempo passava – racconta l’uomo a tempi.it – più mi convincevo che Daniela capisse e percepisse tutto quello che accadeva intorno a lei. Ma i dottori mi rispondevano che non dovevo illudermi, che non capivo la gravità della situazione».
Nel marzo del 2006 Luigi decise di andare fino in fondo alla sua intuizione. Provò a dividere l’alfabeto in quattro gruppi di sillabe per vedere se la moglie riuscisse a sceglierle chiudendo le palpebre. «Dimmi se ci sei, chiudi le palpebre quando indico le lettere», chiedeva Luigi con il cuore in gola. «Perché ho sempre sonno?», fu la risposta composta da Daniela con fatica, la prima che squarciò le mura che la imprigionavano da mesi. Sua moglie, chiusa in quel corpo senza possibilità di esprimersi, aveva vissuto momenti di angoscia in cui si fatica a immedesimarsi. «In ospedale la trattavano come incosciente e insensibile, non avevano capito che si era ammalata della sindrome di Locked-in».

Un’assurda malattia che rende una persona incapace di muoversi, come se fosse imprigionata nel suo corpo. La stessa che colpì Jean-Dominique Bauby, il giornalista francese e capo redattore della rivista Elle: «La storia di quest’uomo, da lui stesso scritta con le palpebre – spiega Luigi – ha fatto il giro del mondo con il film Lo scafandro e la Farfalla (2007) e ha contribuito in maniera significativa a farla conoscere».
Luigi e Daniela, dopo il dramma della diagnosi sbagliata, sperimentarono anche la difficoltà di trovare quegli aiuti «che lo Stato non garantisce come dovrebbe». Lunghissime trafile burocratiche per ottenere anche le più piccole cose. Per questo nel 2007 diedero vita all’Associazione “Gli Amici di Daniela Onlus”: «Per noi era tassativo che Daniela dovesse essere assistita in casa. Ci siamo fatti aiutare, ci siamo uniti in rete e adesso sono tantissimi gli amici, i volontari e le persone che frequentano la nostra casa. Vogliamo che anche per gli altri malati sia lo stesso».

In effetti molte persone smettono di combattere «per le difficoltà e per la solitudine: con la nostra associazione sosteniamo le famiglie». A preoccupare Luigi, oltre alle troppe diagnosi sbagliate («il 40 per cento di quelle di stato vegetativo o minima coscienza sono errate»), è la disinformazione: «Occorre che i medici siano preparati e che la gente conosca la malattia. Purtroppo molti dottori si basano su conoscenze acquisite anni fa». Ormai tutti gli studi più moderni dicono che queste persone hanno coscienza e percezione della realtà. Come ha scritto Daniela: «Una persona affetta da Lis non sente solo con le proprie orecchie, ma anche con la pelle, con la pancia e con il cuore». Lo stesso dicono «degli stati vegetativi tutte le ricerche recenti», spiega Luigi.

Nel 2010 marito e moglie hanno deciso di fondare un’altra associazione. Si chiama “Lisa Onlus” ed è nata con l’intento di promuovere la creazione di strutture adatte, l’assistenza della cura domiciliare e la diffusione della conoscenza della malattia. «Occorre informare. Far sapere, ad esempio, quello che dicono i dati clinici: 0,8 persone su 100 mila sono affette da sindrome di Locked-in. Significa che in Italia questi malati sono circa 500. “Lisa Onlus” ne conosce solo 35. Dove sono gli altri? Forse in qualche struttura di lungo degenza trattate come se non capissero nulla». “Lisa Onlus” collabora con Alis, l’associazione francese nata per volontà di Jean-Dominique Bauby, con cui ha creato Lisef, la federazione europea per la sindrome di Locked-in a cui hanno già aderito sei stati. Per Luigi il supporto reciproco, l’aiuto informativo e quello economico alle famiglie è necessario.
«Daniela è molto aiutata. E così si dà da fare: oltre che occuparsi delle associazioni fa anche la mamma». La donna infatti scrive fiabe bellissime alla sua piccola di 7 anni per spiegarle i misteri della vita e al figlio maggiore dà le dritte che spettano a un diciassettenne. Ma dove trova tanta forza? «Daniela ha momenti di sconforto e momenti di grande gioia. Ma chi non ne ha? Soprattutto ha una grande Fede. La forza che le dà il Signore è grandissima». E lei come fa? «Io vado avanti per la voglia di cambiare le cose e per la rabbia davanti a certe ingiustizie. Insomma sembrerà strano, però la vera forza la prendo da quella di mia moglie». 

di Benedetta Frigerio

18 luglio 2012

FONTE: tempi.it



Ho già parlato in diversi post della Sindrome di Locked-in e ancora conto di farlo anche in futuro perchè, come dice Luigi Ferraro, marito della splendida Daniela: "Occorre che i medici siano preparati e che la gente conosca la malattia". E se parlarne, anche attraverso le pagine di questo blog, può in un qualche modo contribuire a farla maggiormente conoscere alla gente, allora ben venga parlarne e ancora parlarne.
Oltre a tutto questo c'è la storia di Daniela.... drammatica per la sua malattia, ma anche splendida per il modo in cui l'affronta, sostenuta dalla sua grande Fede in Dio. Onore e merito a lei, a suo marito e a tutte le persone che affrontano con coraggio, forza e dignità questa malattia così grave e invalidante.

Per chi volesse conoscere ancora meglio la storia di Daniela, le Associazioni da lei fondate assieme al marito, e la Sindrome di Locked-in, rimando tutti al loro sito internet: 
http://www.lisaonlus.org/

Marco

giovedì 27 marzo 2014

L'ospedale che trasforma le paure dei bambini in fantastiche avventure

Il Presbyterian Morgan Stanley di New York aiuta i più piccoli a rendere meno sofferente e triste la malattia


È conosciuto in tutto il mondo per la sua “stranezza”. Regala sorrisi ai più piccoli e li aiuta con le loro paure e difficoltà. Il Presbyterian Morgan Stanley di New York è un ospedale magico, in cui le paure dei bimbi vengono trasformate in fantastiche avventure e storie ricche di mistero, fascino e suspance. Non si tratta di vera magia o di polvere luminosa dotata di poteri, non si tratta di vere e proprie bacchette magiche, pentoloni e formule segrete. Il trucco, rimanendo in tema magia, sta tutto nel design pensato e ideato proprio per i bambini.

La sala Tac è stata costruita come una nave dei pirati, quella di riabilitazione permette ai piccoli di navigare nello spazio.
Il Presbyterian si spinge oltre il limite e vince il titolo di miglior ospedale infantile del mondo, regalando gioia, fantasia e forza di sognare ai bambini malati, sofferenti e tristi ricoverati nella struttura. L’idea di trasformare l’ospedale in un “gioco” sembra essere quella vincente: i bimbi, infatti, riescono, forse per la prima volta, a vivere la malattia in serenità, grazie al colore, al design e alle decorazioni che sostituiscono i muri grigi e spenti, le sale d’attesa che incutono timore, le camere buie.

Stile marinaresco, colori tendenti al blu per simulare il mare e le onde, il cielo azzurro e la barca dei pirati, con oblò, prua e poppa. Lo spazio, con le stelle e il cielo buio, le navicelle spaziali, le astronavi, i pianeti e le avventure verso l’infinito e il misterioso. La fantasia dei bambini è più che servita.


18 marzo 2014

FONTE: blogdilifestyle.it



Quando l'uomo ci si mette, sa avere veramente delle grandi "intuizioni". E quella di creare un ospedale a misura di "fantasia di bambino" è certamente una di queste. Un bellissima idea, davvero originale, che fa onore all'intelletto e alla sensibilità umana. Da copiare certamente anche qui da noi.

Marco

martedì 25 marzo 2014

29 chilometri al giorno col figlio disabile in spalla. Yu Xukang è il padre dell’anno

Il piccolo è disabile ma è il primo della classe. «Andrà al college». Dopo che le tv si sono occupate della famiglia le autorità cinesi si sono dette disposte ad aiutarla

È l’uomo dell’anno, secondo il «Daily Mail». Meglio sarebbe: il padre dell’anno. Un omino, per la verità. Almeno a giudicare dalle fotografie, in cui lo si vede camminare con le scarpe da tennis e un giaccone pesante. Siamo nella Cina meridionale, sulle colline della città-prefettura di Yibin, provincia del Sichuan. Su sentieri polverosi e accidentati, tra muretti a secco e alberelli smagriti, il quarantenne Yu Xukang cammina con un bambino sulla schiena, tenendogli le mani perché non cada all’indietro. Con il figlio dodicenne Xiao Qiang adagiato dentro un canestro di vimini, il signor Yu Xukang percorre ogni giorno 18 miglia, ovvero 29 chilometri. A piedi. Dove vanno il papà e il suo bambino? Raggiungono la scuola, dove Xiao Qiang passa le sue giornate in classe, a scrivere e fare i calcoli come tutti i bambini del mondo.

4,5 miglia per andare, 4,5 miglia per tornare in paese a lavorare, 4,5 per tornare nella borgata di Fengyi Fengxi dove si trova la scuola, 4,5 miglia ancora per riportare il bambino a casa. 4,5 miglia quattro volte al giorno. Sveglia alle cinque del mattino, colazione, camminata andata e ritorno, lavoro, seconda camminata andata e ritorno, cena. E così via, se la matematica non è un’opinione: 18 miglia tutti i giorni, finché le gambe e la schiena reggono, e finché il governo non gli darà un aiuto, come ha promesso non appena la fatica di papà Xukang è stata ripresa e raccontata dalle tv locali. È la fatica di un padre che dopo il divorzio (nove anni fa) ha deciso di crescere in solitudine il figlio disabile e di permettergli di frequentare le scuole. Un piccolo Ercole delle colline cinesi. «Sono orgoglioso - dice - che Xiao Qiang sia il migliore della classe e sono sicuro che farà grandi cose. Il mio sogno è che un giorno si iscriva al college». Deve essere fiero anche di sé, se ha calcolato che finora, con il piccolo sulle spalle, ha marciato almeno per 1.600 chilometri. E continuerà a farlo, con la schiena sempre più ingobbita e le gambe sempre più deboli, se le istituzioni non si muovono. Certo il piccolo Xiao Qiang, con i suoi 90 centimetri di statura, non potrà rimproverargli nulla: suo padre ha fatto il possibile. E anche di più.

«Vado a scuola» un film diretto dal francese Pascal Plisson e uscito pochi mesi fa, racconta storie simili a quella del papà e del bimbo cinese. Racconta lo sforzo immane di tanti ragazzini, in Kenya, in India, in Marocco, in Patagonia, che devono alzarsi all’alba e attraversare fiumi, pianure, montagne, kanyon o foreste, per andare a studiare. Alcuni devono persino caricarsi di secchi d’acqua e di legna, perché la loro scuola non offre da bere durante la giornata e non garantisce il riscaldamento. Altri, i giovani Masai, hanno rinunciato a essere guerrieri pur di studiare. Zahira vive in un villaggio berbero nel Marocco con due fratelli e quattro sorelle e sogna di diventare poliziotto per difendere i diritti delle donne e dei bambini del suo Paese. La vediamo camminare sola, un velo nero in testa e uno zainetto sulle spalle, in mezzo a una montagna arida. Nella Baia del Bengala il dodicenne Samuel, figlio di pescatori poverissimi, deve percorrere 8 chilometri su una sedia a rotelle (ha contratto la poliomielite da piccolo) sfidando piogge, sassi e buche. Carlito si mette in cammino, con la sua sorellina, per 25 chilometri sulla groppa di un cavallo sfidando la Cordigliera delle Ande con la preoccupazione di non arrivare in ritardo a lezione.

Il documentario di Plisson è stato insignito del logo Unesco e racconta storie di oggi, che però ci appaiono lontanissime come provenissero dall’Olocene. I nostri nonni e bisnonni avrebbero potuto raccontarci fatiche simili, vissute negli anni della guerra, magari sotto le bombe, o poco dopo nelle campagne e nelle province italiane. Storie di povertà e di ostinazione che per fortuna sono archiviate sotto la voce «passato remoto». La morale delle favole di ieri e soprattutto d’oggi, che non sono favole, è fin troppo facile. Talmente facile che andrebbero lette (o proiettate) ai figli del consumo, annoiati dello studio, anzi esausti pur avendo camminato soltanto qualche centinaio di metri per raggiungere la loro scuola, zainetto sulle spalle di papà o di mamma, e sorbirsi svogliatamente qualche ora di lezione. Morale facilissima, per carità (e mettiamoci pure tutte le eccezioni del caso). Ma utile per crescere, come ogni morale della favola. Specie se qualcuno sa spiegare che quella di Xiao Qiang e di suo padre non è una bella favola ma una dolceamara realtà.

di Paolo di Stefano

12 marzo 2014

FONTE: corriere.it



Bellissimo articolo e storia splendida, anche se certamente non facile dal punto di vista del protagonista, il quarantenne cinese Yu Xukang, un piccolo uomo (come statura), ma dal grande cuore e dall'altissima levatura morale.
Ragazzi, farsi 30 Km al giorno con il figlio disabile sulle spalle per permettergli di andare a scuola.... è veramente una cosa straordinaria! E poi c'è il lavoro, il suo essere padre, con tutto quello che comporta...."Chapeau" mi viene da dire, giù il cappello dinanzi a questo piccolo grande uomo. E ricordiamoci di lui quando ci lamentiamo del piatto che non ci piace, del piccolo guasto alla macchina, della "poca" voglia di lavorare.... ricordiamoci di lui e pensiamo quanto, in verità, siamo molto fortunati ad avere quello che abbiamo.

Marco

sabato 22 marzo 2014

Con mamma e fratello disabile non riesce a trovare casa

Da nove mesi la famiglia è ospitata in una comunità a Palermo. La giovane può pagare ma non riesce a trovare chi è disposto ad affittarle una casa

PALERMO – Una casa per riuscire a poco a poco a riprendere una vita normale. È quello che desidera fortemente Giovanna che, a soli 29 anni, dopo la morte del padre, si trova a dovere aiutare insieme alla sorella più piccola una mamma con una disabilità cerebrale e un fratello di 12 anni autistico. La situazione familiare è precipitata economicamente dopo che il padre di Giovanna, operaio edile, è morto lo scorso giugno per una grave malattia. Man mano che si aggravavano le sue condizioni di salute, il padre non è stato più in grado di gestire tutte le spese familiari, compreso il canone dell’affitto della casa dove abitavano.

SFRATTO - La situazione si è fatta ancora più pesante, fino a quando, alla famiglia non è arrivato lo sfratto per morosità che l’ha costretta a trasferirsi in una comunità di accoglienza che lavora in convenzione con il comune. Per Giovanna è iniziata una vita diversa perché, oltre ad accudire la madre e il fratello, si è dovuta mettere alla ricerca di una casa che, finora, non è riuscita a trovare. La ragazza ha deciso così di rivolgersi allo sportello della Caritas dove l’avvocato Giuseppe Bono dell’associazione “Altri avvocati” l’ha aiutata ad essere nominata, con provvedimento del tribunale dei minori, curatore speciale del fratello. Il tutto perché la madre, invalida civile al 70% a causa di un oligofrenia cerebropatia, non è in grado di provvedervi. Intanto, i problemi si accavallano ed il fratello, nonostante la sua grave disabilità, dovrà presentarsi di nuovo, il prossimo aprile, presso la commissione unificata dell’Asp e del Inps per sottoporsi a una visita di accertamento della sua disabilità.

OBIETTIVI - In questo momento la famiglia si accontenterebbe di trovare almeno una casa di tre stanze di cui può pagare l’affitto, ubicata tra la stazione centrale e la zona Oreto dove abita anche una loro zia. La ragazza sarebbe in grado di pagare una casa perché percepisce la reversibilità del padre, la pensione sociale della madre e l’indennità di invalidità del fratello. «Ho provato a cercare una casa, per un momento ho creduto pure di averla trovata, ma non appena ho detto della mia storia la proprietaria non me l’ha voluta affittare. Non riesco a capire perché non dovrei offrire idonee garanzie economiche. Sembra che a nessuno interessi la situazione di disabilità che io e mia sorella abbiamo sulle nostre spalle. Siamo persone che viviamo i nostri problemi con grande dignità, senza gridare ma soffrendo in silenzio ma, non per questo, vuol dire essere penalizzati dalla società».

PERCORSO - Giovanna, nonostante tutto continuerà la sua ricerca, fiduciosa che, con tante case sfitte che ci sono a Palermo, prima o poi qualcuno risponderà al suo bisogno. Una volta trovata una casa, il comune dovrebbe attivare a favore del nucleo familiare un percorso di housing sociale che le permetterebbe di sostenere soprattutto le spese iniziali per l’affitto dell’immobile. «Gli operatori della comunità che ci ospita dallo scorso maggio ci hanno accolto molto bene e soprattutto la proprietaria del centro è una signora sensibile che ci ha sempre ascoltato – ci tiene a sottolineare Giovanna – ma abbiamo bisogno di vivere in una casa per riprendere la nostra vita normale. La comunità è distante dal centro della città e ogni giorno per muovermi prendo due autobus». «Soltanto a partire da una casa potrei anche essere più serena nell’occuparmi di mia madre che, dovrebbe pure essere operata per via di un calcolo che ha ad un rene e di mio fratello. Mio fratello è un angelo – dice -. Nonostante la sua disabilità ha molte potenzialità e a lui abbiamo sempre cercato di non fargli pesare nessun problema. Un altro desiderio sarebbe quello di poterlo fare seguire in un centro specializzato ma finora non ci siamo riusciti».
Chi volesse aiutare la famiglia potrà farlo contattando l’indirizzo email nl@redattoresociale.it .

24 febbraio 2014


E' davvero incredibile che una giovane donna di 29 anni assieme alla propria sorella, non riesca a trovare un appartamento per loro e per il fratello disabile e la madre malata, proprio a causa delle condizioni dei propri due famigliari bisognosi. E sono oramai 10 mesi che questa famiglia è ospite di una Comunità.
Chiunque volesse e potesse aiutare Giovanna e la sua famiglia, lo faccia scrivendo all'indirizzo e-mail nl@redattoresociale.it . Grazie di cuore. 

Marco

mercoledì 19 marzo 2014

Piera racconta: "Vivere con la fibromialgia"

Posso dirti che la fibromialgia è una brutta bestia, non come il cancro o l'Alzheimer o altre simili che ti fanno morire, ma la fibromialgia non ti fa più vivere come vorresti o come vivevi prima senza di lei”.

Chi mi racconta i problemi di questa malattia spesso non riconosciuta tale è Piera Masuero, 53 anni, di Cossato, ex infermiera all'ospedale di Biella, che desidera far conoscere che cosa significhi contrarre questo tipo di malattia che le è stata diagnosticata dopo tre anni in giro per ambulatori, studi medici, ospedali.

Ci sono volte che programmi delle uscite e all'ultimo momento devi disdire – mi racconta ancora Piera - perché la fibromialgia è imprevedibile, purtroppo. La maggior parte degli amici lascia passare una, due, tre volte poi si allontana perché i programmi sono rovinati. Però c'è di bello che si scoprono chi sono i veri amici, quelli che rimangono perché si informano, si fanno una cultura, non si fermano all'apparenza e cercano di mettersi nei tuoi panni. Ci sono altre persone che entrano ex novo nella tua vita. Insomma la vita con la fibromialgia si rivoluziona, però si riesce a convivere e dona anche tante belle cose in alternativa”.

Il racconto di Piera così prosegue: “tante volte la fibromialgia ti porta a una disabilità tale da non riuscire a camminare oppure ad avere dei dolori così forti da non riuscire ad alzarti dal letto. Il dolore non è misurabile e non è rilevabile, infatti la persona si presenta con un aspetto non trascurato e non decadente. Questo fa credere che questa persona "si inventi" questi problemi. L'apparenza inganna e solo chi lo prova sulla propria pelle sa cosa vuol dire vivere con la fibromialgia”.

Vivi come se fossi in guerra – continua nella sua testimonianza Piera - quando arriva a farti compagnia... sei in guerra con lei perché ti ostacola moltissimo nella vita di tutti i giorni e arrivando agli estremi anche fino ad essere così invalidante da inchiodarti in un letto o su di una sedia a ruote. L'importante è lottare senza lasciarsi abbattere perché questo è ciò che succede all'inizio”.

In occasione della recente giornata del malato, lo scorso 11 febbraio, Piera (che si può trovare anche su Facebook) ha deciso di far conoscere tramite i suoi amici e le sue amiche l'associazione, chiamata Adas, che si occupa di queste malattie che, a suo parere, sono in stretto rapporto con l'inquinamento ambientale.

L'Adas (Associazione per la difesa dell'ambiente e della salute) è infatti un’associazione no-profit che promuove e sostiene la ricerca medico-scientifica, in particolar modo quella finalizzata allo studio del rapporto tra inquinamento ambientale e patologie consequenziali. Queste malattie si chiamano Sensibilità Chimica Multipla, Fibromialgia, Sindrome da Fatica Cronica-Encefalomielite Mialgica. Sono patologie immuno-tossico-infiammatorie a carattere degenerativo, che colpiscono soprattutto il sistema nervoso centrale ma non risparmiano altri apparati ed organi. Queste tre patologie, che spesso sono presenti contemporaneamente, insorgono in maniera subdola per rivelarsi poi devastanti; sono ancora poco note; pertanto vengono diagnosticate quando ormai sono in una fase avanzata e quindi irreversibili. È ancora sconosciuta la loro causa scatenante e ai malati non vengono garantiti i livelli essenziali di assistenza.

Ringrazio Piera per la sua testimonianza che dimostra che anche chi ha questi problemi può essere di aiuto a tutti, e quindi essere una... importante falùspa!

di Massimiliano Zegna

17 marzo 2014

FONTE: laprovinciadibiella.it

lunedì 17 marzo 2014

Dalila e Tiberio: il mondo vegan ci ha ridato la vita e ora ve lo facciamo assaggiare


Dalila Timmonieri ha lo sguardo e l’entusiasmo di chi ha temuto di dover rinunciare alla vita. Oggi può muoversi, cucinare, andare in bici. Tutto sembra semplice e naturale, ma non è stato sempre così. Qualche anno fa, la sua esistenza tranquilla di studentessa universitaria di psicologia è stata sconvolta da una malattia che l’ha costretta in un letto e che è riuscita a sconfiggere solo con caparbietà e optando per una scelta drastica sul piano alimentare: diventare vegana. Un’esperienza che ora può raccontare con serenità e che l’ha condizionata anche nella costruzione del suo futuro professionale. Dalila, infatti, insieme al fidanzato, Tiberio Marilli, sta per aprire un ristorante vegan-bio-gluten free in pieno centro a Pescara. Se tutto filerà liscio, inaugurerà l’attività all’inizio di marzo.

Ne abbiamo iniziato a parlare nove anni fa ed ora stiamo per realizzare questo sogno” spiega con entusiasmo. “La crisi? Non siamo intimoriti, ci sono tanti motivi per lamentarsi, le tasse da pagare, le banche che non danno soldi. Ma ci vuole un po’ di coraggio perchè così non si va più avanti”.

Di coraggio Dalila, che oggi ha 29 anni, ne ha avuto già tanto. Sette anni fa, il suo corpo ha cominciato a cedere alla stanchezza impendendole di svolgere una vita normale. “Non riuscivo più a salire sull’autobus per andare all’università, non avevo forza nelle gambe, sembravano pesare tonnellate” racconta. “In quel periodo avevo iniziato a lavorare nell’ufficio di un commercialista dove mi recavo in bici. Non ce la facevo più neanche a pedalare perchè mi sentivo troppo stanca. Tremavo dalla stanchezza e, qualche volta, sono anche caduta dalla bici”. Lo stress, la pressione dello studio, tentativi di darsi una spiegazione a una vitalità che viene meno, ma ogni giornata diventa una lotta con il proprio corpo che si ribella alla mente.

I sintomi, gradualmente, peggiorano. Nel giro di pochi mesi, Dalila ha dolori sempre più forti alle ossa e alla muscolatura, è costretta a lasciare il lavoro perchè non ce la fa ad alzarsi dal letto, non ce la fa a studiare visto che inizia ad avere anche problemi a livello cognitivo. “Quando leggevo una frase, non ricordavo più la precedente. Alla fine sono rimasta nell’immobilità, non riuscivo più neanche a mangiare da sola, la mia famiglia era lontana. L’unico mio punto di riferimento è stato Tiberio” .

Inizia il viatico negli ospedali di Chieti e Pescara, ma non emerge una diagnosi. Dalila comincia a prendere peso, inspiegabilmente, pur mangiando assai poco. L’ago della bilancia segna 15 chilogrammi in più, macigni su un corpo che non riesce a muoversi. “Un endocrinologo mi diede una dieta” prosegue. “Mi disse che era la bilancia a parlare, non credeva al fatto che io non mangiassi. Mi consigliò un regime alimentare impossibile da seguire per la quantità di cibo. In ospedale mi rivoltarono come un calzino, ma non emerse nulla di significativo; fino al terzo ricovero non mi diagnosticarono neanche la celiachia”.

Dalila non si arrende, a ventidue anni non può rinunciare a muoversi, non può piegarsi a una fatica invalidante che le impedisce di vivere con fiducia ed entusiasmo. Si pianta davanti al computer e, con internet, cerca, studia, prende contatti con persone che hanno i suoi stessi sintomi e arriva ad una convizione. “Il mio problema si chiamava Sindrome da Fatica Cronica” spiega. “E’ una malattia di cui non si conosce l’origine e non ci sono terapie efficaci. Trovai uno specialista, l’unico in Italia, del centro antitumori di Aviano. Alla prima visita mi disse che era un caso eclatante di questa sindrome e mi propose una terapia sperimentale. Assunsi dei farmaci che mi fecero peggiorare. Avevo già una rigidità muscolare notevole che si aggravò. Tiberio doveva farmi delle iniezioni, ma non riusciva più ad infilare l’ago per il gonfiore e la rigidità. Mi sottoposi ad altre tre terapie, ma continuai a peggiorare e così lo specialista mi disse che non aveva mai visto un caso come il mio e che l’unica speranza era di andare in Belgio in un centro specializzato”.

Facile lasciarsi andare alla sfiducia, alla depressione, ma Dalila non ci sta. Continua la sua ricerca su Internet, si informa, si concentra sull’alimentazione e arriva ad una nuova conclusione: la sua malattia può essere dovuta ad un’intossicazione da metalli pesanti.

Il mio secondo tentativo mi portò a contattare un professore, Mauro Mario Mariani, che è l’unico in Italia che fa la terapia chelante con EDTA per disintossicarsi dai metalli pesanti. Contemporaneamente, decisi, insieme a Tiberio, di diventare vegana in seguito ai miei studi sull’alimentazione. Per due mesi mangiai solo frutta e verdura e iniziai a migliorare e a capire che non si mangia solo per piacere o per nutrirsi, ma anche per curarsi. Dopo quindici giorni ripresi a camminare. Il mese successivo fui ricevuta dal dottor Mariani e cominciai la terapia per disintossicarmi. Tutti possiamo essere intossicati dai metalli e non sapere leggere semplici sintomi, come una pressione alta. Sono stata fortunata a capirlo in tempo e a trovare qualcuno che mi abbia curata”.

Grazie alla sua intuizione, alla nuova terapia e al nuovo regime alimentare, Dalila, gradualmente, torna ad una vita normale e alle sue abitudini. Le gambe ricominciano a muoversi, i muscoli a riprendere elasticità e morbidezza, i dolori si attenuano. Non ci sono più diagnosi da cercare, incubi da combattere. Nel giro di un anno si riscrive all’università, si muove di nuovo in bicicletta, opta, per continuare a curarsi, la medicina integrata, e prosegue la sua alimentazione vegana prediligendo il biologico. Oggi può guardare con fiducia al suo futuro e coltivare la sua vera passione: la cucina.

Anche prima amavo cucinare, ma da quando sono diventata vegana ho imparato a conoscere ed utilizzare tanti cereali” spiega. “Adopero moltissimi legumi e 35 – 40 varietà di riso, le farine le macino da sola e propongo le mie ricette in un blog”.

Oggi Dalila sta realizzando un sogno coltivato e condiviso a lungo con Tiberio, una scommessa a cui nessuno credeva: aprire un ristorante vegan. “L’idea l’abbiamo tenuta chiusa in un cassetto per nove anni” dice Tiberio. “Quando siamo diventati vegani, ne abbiamo riparlato. Ho partecipato ad un concorso in Confindustria e sono rientrato tra i venti progetti selezionati per un corso gratuito professionale per realizzare l’idea di impresa partendo dal business plan. Ho imparato tante cose che le esperienze lavorative precedenti non mi avevano fatto acquisire. Siamo anche rientrati come progetto in un bando regionale. Siamo coraggiosi? Forse sì, ma preferiamo creare una nostra attività piuttosto che trovare un altro lavoro da dipendenti dove non arriva lo stipendio anche per sei mesi consecutivi”.

Il locale di Dalila e Tiberio si chiamerà “Moashi”, un nome inventato nel segno della creatività che lo connoterà. Il bar-ristorante, situato in via Regina Margherita, sarà aperto a colazione e per l’aperitivo, a pranzo e a cena con piatti vegan-bio-gluten free.

Cucinero iò” spiega Dalila con entusiasmo. “Cambierò il menù tutti i giorni per il pranzo; per la cena penso che la variazione sarà settimanale e poi farò un sacco di pasticceria perchè mi piace tantissimo. Credo che il nostro corpo sia un meraviglioso “mezzo di trasporto” per la nostra anima in questa vita e come tale vada tutelato e ringraziato; siamo ciò che mangiamo, quindi le ricette che preparerò saranno sempre basate su ingredienti naturali e integrali, senza glutine, le cose buone che mi hanno fatta stare bene e che mi fanno stare bene e che spero rendano felici le persone con cui le condividerò, almeno quanto rendono felice me”. 

di Simona Giordano

19 febbraio 2014

FONTE: abruzzoservito.it

http://www.abruzzoservito.it/dalila-e-tiberio-il-mondo-vegan-ci-ha-ridato-la-vita-e-ora-ve-lo-facciamo-assaggiare/



Gran bella storia, non solo per i miglioramenti avuti da Dalila nel suo percorso di salute, ma anche per la sua intraprendenza nel volersi tuffare in questo progetto, davvero bello e originale, di aprire un ristorante rigorosamente "vegan" assieme al marito Tiberio.
Tanti Auguri per tutto cara Dalila.... e che i tuoi progetti diventino al più presto delle splendide realtà !!!

Marco

venerdì 14 marzo 2014

L'odissea di Giusi: ha una malattia rara, ma non riconosciuta in Puglia


Una donna leccese di 56 anni soffre di una rara malattia che non le consente di vivere normalmente. Invalida al 100%, percepisce solo 280 euro mensili di pensione. La sua patologia non è riconosciuta dal sistema sanitario pugliese.

Ho una pensione di 280 euro al mese e non so più come fare a tirare avanti”. Giusi Marazia, 56 anni, leccese, soffre di MCS – Sensibilità Chimica Multipla – una patologia rara scatenata dall'esposizione agli agenti chimici e non riconosciuta dal sistema sanitario pugliese. Le conseguenze sono pesantissime. La signora Marazia non può entrare in contatto, ad esempio, con detersivi, deodoranti, profumi, inchiostro, farmaci, alcuni alimenti. Ambienti e persone sono fonte di pericolo primaria, con tutto ciò che può derivarne. Se non si presta attenzione, con la MCS – della quale soffre un migliaio di persone in tutta Italia – si può andare incontro a effetti gravissimi, quali lo shock anafilattico.

Lotto con questa situazione da quattro anni – racconta Giusi Marazia -, da quando mi fu diagnosticata questa patologia. Da allora, ho perso tutto: casa, lavoro, vita sociale. Mi è stata riconosciuta un'invalidità al 100%, ma percepisco solo 280 euro al mese. Come posso vivere così? Riesco ad andare avanti solo grazie alla generosità di chi mi è vicino. Non riesco a pagare nemmeno tutte le bollette”.

A farsi portavoce della vicenda anche il Comune di Lecce, che tramite la segreteria del sindaco Paolo Perrone a più riprese ha scritto all'assessore alla Sanità regionale Elena Gentile. Una lettera a settembre scorso, una a novembre, varie sollecitazioni telefoniche. Dall'altra parte, però, nessuna risposta ufficiale è ancora pervenuta. La MCS, infatti, è una patologia che altri sistemi sanitari regionali già riconoscono: succede in Veneto, Basilicata, Calabria e Lazio. Fuori dall'Italia, in Paesi come Germania, Svizzera, Stati Uniti, Danimarca.

Vorrei essere messa nelle condizioni di lavorare – aggiunge la signora Marazia -. Non chiedo di essere mantenuta; vorrei solo che la Sanità riconoscesse questa mia patologia e mi fosse concesso di essere autosufficiente. Paradossalmente, invece, ho l'esenzione dal ticket, ma l'MCS non mi permette di assumere farmaci. Oggi non posso quasi uscire di casa e questo ha praticamente azzerato la mia vita sociale. Le istituzioni sono assenti: ho scritto a politici, al Papa, all'ex premier Enrico Letta, al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ma niente. Siamo dimenticati”.

L'avvocato Salvatore Greco, che porta avanti la battaglia con Giusi Marazia, nonostante le difficoltà è comunque fiducioso: “Le maglie della normativa non consentono grandi manovre, ma continueremo a insistere con grande tenacia. Giungeremo a tirar fuori la signora Marazia da questa disavventura . Il disposto degli articoli 32 e 38 della Carta Costituzionale lasciano intravedere degli spiragli nei quali innescare le nostre richieste”.

4 marzo 2014


MCS, ALL'APPELLO DI GIUSI RISPONDE L'ASSESSORE GENTILE: "SITUAZIONE DRAMMATICA, SOLLECITEREMO IL MINISTERO"



Dopo l'appello disperato di Giusi Marazia, 56enne leccese affetta da MCS, l'assessore alla Sanità della Regione Puglia Elena Gentile rinnova il suo impegno: "Solleciteremo il Ministero della Salute affinché riconosca la MCS come malattia rara".

"La Puglia ha già chiesto al Ministero della Salute che la MCS venga riconosciuta". L'assessore alla Sanità della Regione Puglia Elena Gentile raccoglie l'appello di Giusi Marazia - la 56enne leccese affetta da Sensibilità Chimica Multipla - e si impegna a continuare questa battaglia anche nel prossimo futuro.

"La drammatica situazione della signora Giusi di Lecce - spiega Gentile -, come medico prima e poi come assessore regionale alla Salute, mi ha fatto provare immediatamente una solidarietà che intendo tradurre, per tutto quanto è nelle mie possibilità, in azioni concrete per tutte le persone affette da Sensibilità Chimica Multipla. Come sappiamo, la MCS non è ancora riconosciuta a livello nazionale come una malattia rara. La Puglia ha già richiesto da molto tempo che il Ministero della Salute riconosca la MCS come malattia rara gravemente invalidante, al fine di farne scaturire una serie di agevolazioni sull'accesso alle cure e ai presidi igienici e sanitari più necessari senza gravare sui bilanci familiari. Finché questo non accade purtroppo le Asl non possono fare più di quello che fanno".

L'assessore Gentile ha però garantito perseveranza fino al raggiungimento dell'obiettivo: "Tornerò a sollecitare ancora il Ministero della Salute perché faccia la sua parte consentendo alle Regioni di erogare cure e prestazioni adeguate. D'altro canto la signora Giusi ha certamente bisogno di un intervento di edilizia abitativa con caratteristiche specifiche e allo stesso tempo necessita di interventi di sostegno economico che solo in parte potrebbero essere riconosciuti con l’istituendo Sostegno per l'inclusione Attiva da parte del Ministero del Lavoro, dal momento che l'Italia e dunque la Puglia non hanno una misura di sostegno economico al reddito. Certamente molto può fare direttamente il Comune, attraverso politiche attive di inclusione e progetti mirati di sostegno al reddito, anche utilizzando adeguatamente le risorse già stanziate e assegnate dalla Regione per l'attuazione del Piano sociale di zona, Ad esempio integrando il costo per l'acquisto di speciali condizionatori per il filtro dell'aria".

6 marzo 2014

FONTE: Leccesette.it

lunedì 10 marzo 2014

Ci lascia a soli 26 anni "Bambetta", la clown malata che faceva ridere negli ospedali


Alice Mancinelli, detta "Bambetta" non ce l’ha fatta: a soli 26 anni è stata uccisa dal male incurabile di cui era colpita. Fino all’ultimo ha fatto sorridere i bambini in ospedale vestita da clown.

Se n’è voluta andare con il su vestito da clown Alice Mancinelli. Lottava contro una malattia genetica eppure fino all’ultimo, sorriso smagliante e naso rosso, andava in ospedale a cercare di far ridere i bambini malati. Se n’è andata venerdì mattina. Nulla aveva fatto presagire ad un aggravamento così repentino della malattia che l’ha resa disabile: un malore in casa nella notte tra giovedì e venerdì. La corsa in ospedale ma alle 4.30 il suo cuore ha smesso di battere per sempre.

Non per chi l’ha conosciuta: «Bambetta - ricorda Marco Venturini, presidente dell'associazione Vip Clown Vallesina Onlus - è in missione in Cielo. Almeno così ci piace pensare perchè lei che dall'anno scorso era nel direttivo della nostra associazione e svolgeva le funzioni di segretraria, sognava di andare in missione come clown. Non ce l'ha fatta purtroppo. Era una persona speciale, siamo rimasti choccati, proprio non ce l'aspettavamo».
Ieri mattina camice bianco e naso rosso, gli amici di clownterapia si sono ritrovati all’obitorio di Jesi per l‘ultimo saluto a Bambetta, immobile nella bara vestita con il suo adorato abito da clown. Babbo Marcello, mamma Daniela e il fratello Giacomo hanno voluta vestirla così e i suoi tanti compagni di clownterapia. C’erano anche i ragazzi dell’associazione Vip clown di Senigallia dove lei era molto conosciuta.

di Mario Giovanardi

9 marzo 2014

FONTE: vipi.it



E' sempre triste dare notizia di una persona che ci lascia.... ma altresì, è bello ricordare quello che una persona ha fatto durante la propria vita, sopratutto se quello che ci ha lasciato è un ricordo bello, virtuoso e positivo. E nel caso di Alice Mancinelli, detta "Bambetta", è stato proprio così, con la sua carica di simpatia e positività, nonostante la malattia genetica di cui era colpita, che metteva a disposizione dei bambini malati degli ospedali, trasformandosi in un coloratissimo e giocosissimo clown.
Riposa in Pace cara Alice, e anche da Lassù continua a donare gioia e sorrisi come facevi quando eri tra noi. Grazie di tutto.

Marco

giovedì 6 marzo 2014

«Noi, la famiglia con sedici figli»


La scelta di vita di una coppia di Catanzaro. Ogni giorno servono tre chili e mezzo di pane e quattro litri di latte

«Siamo una famiglia straordinariamente normale... Ma il merito non è nostro. Semplicemente perché è un'opera di Dio».
Mezza Catanzaro è in attesa di un parto insieme straordinario e normale, per dirla con le parole appena usate dal capofamiglia Aurelio Anania, 46 anni, impiegato come coadiutore (quello che un tempo si chiamava bidello) all'Accademia di belle arti di Catanzaro: sua moglie Rita Procopio, 42 anni, partorirà nei prossimi giorni per la sedicesima volta. Stavolta è una figlia, si chiamerà Paola e si aggiungerà alle altre otto sorelle e ai sette fratelli.
Aurelio e Rita (lei è ovviamente casalinga, anche se in passato lavorava negli uffici amministrativi del Policlinico Mater Domini) si sono sposati l'8 dicembre 1993 dopo otto anni di fidanzamento e tenendo fede, ci tengono a raccontarlo, al voto di castità prematrimoniale. E da allora è cominciata la serie ininterrotta di figli: per prima Marta, oggi 18 anni, e poi Priscilla, Luca, Maria, Giacomo, Lucia, Felicita, Giuditta, Elia, Beatrice, Benedetto, Giovanni, Salvatore, Bruno fino alla piccola Domitilla, appena un anno e mezzo.

Nessuna storia di marginalità sociale. Al contrario, una scelta consapevole e granitica, come spiega Aurelio Anania: «Non c’è né incoscienza né ignoranza ma il frutto di un cammino di fede, del nostro itinerario neocatecumenale. Se rispondiamo alle domande di qualche giornalista è per testimoniare, nell’anno della Fede proclamato da Benedetto XVI, cosa può produrre la certezza quotidiana del Cristo Risorto. Mia moglie ed io non siamo altro che gli umili amministratori di un disegno divino».
Naturalmente tutta questa fede si declina, come hanno raccontato sia Catanzaroinforma che il Quotidiano della Calabria, in una vita quotidiana materiale. Lo spiega sempre papà Aurelio: «Volete sapere quanto guadagno? 2.200 euro al mese, inclusi gli assegni familiari». Ma come fate ad arrivare alla fine del mese? «C’è sempre l’aiuto della Provvidenza, sicuro, puntuale e ben tangibile. Si può scoprire, per esempio, in un arretrato imprevisto. In un sostegno che arriva da qualche parte. Sono autentici piccoli miracoli, basta saperli capire. L’uomo può anche offendere, se regala qualcosa a qualcuno. Dio non lo fa mai. E non ti costringe nemmeno a chiedere, perché si muove in anticipo sapendo delle tue necessità».

Al netto di tanta certezza interiore
, c'è un'organizzazione familiare perfettamente sperimentata. Ogni giorno servono circa tre chili e mezzo di pane e quattro litri di latte. E il resto? Papà Anania ride: «Per il resto viviamo di offerte speciali. Non abbiamo un supermercato di riferimento ma ci muoviamo in base ai prezzi più bassi». Bastano i soldi per mangiare, per vestirvi? «Potrei dire che solo chi non ha fede si preoccupa di certi aspetti. Ma alla fine sì, bastano. Ha perfettamente ragione Papa Francesco quando sostiene che il denaro domina il mondo. I soldi non mi danno la vita ma mi servono per vivere».
Casa Anania dispone di 110 metri quadrati, in una stanza i sette maschi, in altre due le femmine. Per mamma e papà la sveglia suona alle 6.15, dopo la colazione i grandi vanno a scuola in autobus, i piccoli accompagnati da papà con il pulmino da nove posti parcheggiato in cortile (nelle uscite di famiglia qualcuno si deve sempre infilare nell'auto di amici). Quando la casa si svuota a mamma Rita restano un lettone e sedici lettini da rifare, le lavatrici, la spesa, il pranzo da preparare nella grande cucina dove il pomeriggio si fanno i compiti. Ma nessuno soffre per la mancanza di spazio in quei 110 metri quadrati di casa.
L'ultima battuta di Aurelio Anania, in attesa della piccola Paola, riguarda l'Eternità: «Mi basterebbe la certezza che per noi ci fosse la stessa superficie in Paradiso...».

di Paolo Conti

11 giugno 2013

FONTE: corriere.it


Una storia certamente diversa dal solito per questo blog, ma che ci tenevo a far conoscere perchè veramente bella, intrisa di Fede, di Amore e di ottimismo.
Con i tempi che corrono, con la crisi che c'è, diventa sempre più difficile pensare di poter avere una famiglia con tanti figli...... ma la famiglia Anania non sembra preoccuparsene affatto, e sorretta da una forte e profonda Fede in Dio e nella Sua Divina Provvidenza, hanno formato questa famiglia straordinariamente numerosa. E le cose funzionano, vanno avanti bene, certamente con non pochi sacrifici da parte dei genitori, ma sempre sorretti dalla loro grande Fede, e con tanta fiducia ed entusiasmo.
 
Marco 

lunedì 3 marzo 2014

La piccola Angela Tommaso Esposito ha bisogno del nostro aiuto


Un'infezione contratta a soli tre anni durante un intervento chirurgico ha reso totalmente invalida una bambina che dopo una nascita difficile si apprestava ad abbracciare una vita serena e vivace. Per Angela e la sua famiglia è invece iniziato un tunnel di atroce sofferenza, attraversato solamente con una incrollabile Fede.

PARTO PREMATURO
- «La gravidanza di mia moglie Maria era buonissima
» - parla il padre Tommaso Esposito - «Il 17 giugno 2001 aveva fatto la visita e il ginecologo la trovo in ottimo stato, ma due giorni dopo ci furono delle complicazioni, tanto il medico decise di farla trattenere in clinica. La situazione peggiorò e richiese l'intervento di un'ambulanza considerato che nelle cliniche non si possono fare parti prematuri. Solo che quell'ambulanza sembrava non arrivare mai, il ginecologo decise allora di portarla in sala parto perché non voleva correre il rischio che accadesse qualcosa di irreparabile. Maria stava avendo un aborto spontaneo. L'ambulanza arrivò quando la bambina era già nata: Angela aveva solo 5 mesi e 14 giorni. Pesava solamente 600 grammi. Insieme alla mamma furono portate all'ospedale Cardarelli. Appena giunto in ospedale mi comunicarono un verdetto senza scampo: era impossibile che una bambina in quello stato potesse sopravvivere. I suoi organi non si erano del tutto formati. Decisi comunque di darle un nome e di battezzarla».

INFEZIONE LETALE - Nonostante questo parto cosi difficile Angela fece dei progressi straordinari ed i primi a rimanerne sorpresi furono proprio i medici. All'interno dell'incubatrice cresceva a vista d'occhio. L'ottimismo però fu subito stroncato dalla scoperta che quel parto prematuro aveva purtroppo lasciato delle scorie: la bambina era affetta da idrocefalia, una condizione che causa la dilatazione dei ventricoli cerebrali. Le sue condizioni non sembravano comunque gravi. Era però necessario un intervento chirurgico, particolarmente rischioso all'età di tre mesi. L'operazione riuscì e due mesi più tardi la famiglia Esposito può finalmente tornare a casa con la loro bambina. Il peggio sembrava essere passato: Angela cresceva benissimo, era molto vivace e sembrava non aver accusato particolari complicazioni.
«A undici mesi, dopo altri controlli i medici del Cardarelli ci dissero che Angela doveva subire un altro intervento per cambiare la valvola idrocefalo con una di calibro più grande. Ci fu detto che non c'era alcun pericolo. L'operazione, effettuata all'ospedale Santobono, fu effettivamente molto veloce e dopo pochi giorni tornammo a casa. Angela continuava a crescere e stava bene. A breve però scoprimmo una drammatica verità: durante quell'operazione la piccola aveva contratto un virus mortale. Poco tempo dopo andò in coma e fu sottoposta a sette interventi chirurgici alla testa. Una mole di operazioni troppo pesante per una bambina nata in quelle condizioni. Così Angela è diventata cerebrolesa, oggi ha 12 anni e una invalidità del 100%».

SITUAZIONE DISPERATA - La famiglia Esposito, che nei mesi scorsi ha dovuto affrontare tante tribolazioni per trovare un alloggio adeguato alla condizione di estrema gravità della figlia, ora ha un grande problema: Angela, che è attaccata all'ossigeno 24h su 24h, immobilizzata sul suo lettino, sorda, muta e cieca, ha bisogno di un mezzo di trasporto adatto alle sue esigenze e la famiglia non dispone delle possibilità economiche per poterlo acquistare. Occorrerebbe un Fiat Doblo per disabili, con pedana idraulica per poterla trasportare per visite ospedaliere e terapeutiche.

Per aiutare Angela e la sua famiglia in questa situazione particolarmente urgente e gravosa, si è mobilitato anche il popolo di Facebook, creando l'evento "Un aiuto per la piccola Angela Tommaso Esposito" (
https://www.facebook.com/events/311940745597870/) in cui si domanda aiuto e collaborazione per poter reperire quei fondi che sono necessari ad acquistare questo mezzo opportunamente attrezzato. 

Per chi volesse contribuire a questo fine, donando la propria piccola, ma importantissima, goccia di solidarietà, lo può fare facendo un versamento su carta POSTPAY al numero 4023 6005 8336 8719, Codice Fiscale SPSTMS60B05F839O, intestata a ESPOSITO TOMMASO. 

Uniamoci in tanti e collaboriamo per aiutare questa piccola bambina malata e la sua meravigliosa famiglia, che hanno tanto, ma proprio tanto bisogno del nostro aiuto e del nostro Amore.
Grazie di vero cuore a chi lo farà.

Marco

FONTI: affaritaliani.it, facebook.com