domenica 19 febbraio 2017

L'appello: La malattia che la società ignora


Decine e decine le persone colpite. Viaggio tra i pazienti affetti da MCS: quando cibo, abiti e abitudini sono veleno.

BARI - All’improvviso il mondo intero ti è nemico. Lo è il tuo posto di lavoro, la strada che percorri da anni, ogni giorno, più o meno alla stessa ora. Perfino la tua casa, i tuoi oggetti, la tua memoria ti sono nemici. Si chiama "MCS". È una malattia subdola, feroce, cieca. "Sensibilità Chimica Multipla (Multiple Chemical Sensitivity)", ecco cos’è questo male. Non solo i pesticidi, i gas di scarico, i coloranti, ma anche i profumi, i detersivi, i conservanti: tutto è veleno. L’aria che respiri, gli abiti che indossi, il cibo che consumi. Tutto, tutto è veleno.

Ci sono varie ragioni che spingono gli ammalati di "MCS" a sentirsi i più sofferenti tra chi soffre. Innanzitutto la diagnosi: pochissimi medici sono in grado di capire immediatamente a cosa riconducano quei sintomi. In mancanza di una diagnosi certa, dopo qualche tempo tutti - gli amici, i colleghi, gli stessi medici, perfino i familiari - cominciano a credere che si tratti null’altro che di un disturbo psichiatrico. Quindi non solo sei malato ma sei pure pazzo.

E ancora i costi: tra visite mediche, analisi, cure e tutta la complessa procedura per vivere distanti dai veleni (la bonifica dei luoghi, l’obbligo del cibo biologico) se ne possono andare anche mille euro al mese. C’è chi ha perso il lavoro, chi ha smesso di curarsi perché non ha più soldi, chi ha perso la speranza e consuma gli ultimi mesi a letto.

Ecco: questa è la "MCS".

Prima di incontrare Conny Lattarulo, di questa malattia, chi scrive, non aveva mai sentito parlare. L’incontro con Conny si consuma all’aria aperta, sull’accogliente panchetta di un bar. Primo problema, sedersi controvento, perché nell’aria c’è di tutto: non a caso nella sua borsa è sempre a portata di mano una maschera anti-allergia. Prima impressione: perché una così bella donna si tiene i capelli bianchi? Motivi ideologici? In verità fu proprio l’effetto delle tinture a dare il primo campanello d’allarme. «Avvertivo un malessere inedito e non capivo che cosa fosse. Mi toccavo la testa e mi sembrava di legno». È il 2014, appena due anni fa. Fino a quel momento, per questa 54enne barese, sposata, madre di due figli, un bel lavoro di formatrice e di consulente del Formez, una marea di progetti fatti e da realizzare, la vita si era consumata nella più bella delle normalità.

Poi, lenta e inesorabile, comincia la discesa agli inferi. Conny elenca - tra rabbia e ironia - tutti i medici, tutti gli specialisti, i professionisti consultati nel pubblico e nel privato a Bari e nel resto d’Italia. Dal neurologo al cardiologo, dall’oculista al gastroenterologo. Diagnosi impensabili, terapie paradossali, fino al fatidico verdetto sulle evidenti implicazioni psicosomatiche. «Alle quali non ho mai creduto - spiega -. Mi conosco bene, sapevo di stare male, di avere un serio problema fisico».

Per caso Conny finisce nello studio di una biologa nutrizionista, Valentina De Benedictis (qui in realtà si ritrova per accompagnare sua figlia). Due parole con la dottoressa, le spiega i suoi sintomi. La De Benedictis le dice: «Credo che si tratti di una malattia particolare, mi faccia fare una ricerca...». E così la verità, la drammatica verità sul suo male, a Conny arriva via e-mail. E il racconto del giorno in cui aprì la posta elettronica, lesse della Multiple Chemical Sensitivity e comprese ciò che l’aspettava, è l’unico ricordo che le strappa una lacrima. Per il resto, la sua storia è la sintesi di due anni di coraggio, di forza, di tenacia.

Racconta dei giorni trascorsi a letto, senza forze, della costante compagnia di una bombola d’ossigeno, della drammatica sensazione di uno spegnimento, fino al tentativo di trasferirsi in un paesino vicino al mare, per poter respirare meglio e della successiva necessità di fuga, perché gli uliveti circostanti erano stati irrorati di pesticidi. «Per alcuni giorni abbiamo dovuto sigillare la casa con asciugamani alle porte e alle finestre».

Il rientro a Bari si traduce nello stato d’animo di una prigionia necessaria, di un’ineluttabilità. Ma Conny non s’arrende. Continua a contattare medici e pazienti, a leggere tutto quello che riguarda la "MCS" fin quando si imbatte nel nome di Maria Grazia Bruccheri, una genetista siciliana che si decide infine a venire a Bari. La scintilla della speranza, l’improvviso benessere. La cura della Bruccheri funziona: si tratta di una serie di integratori, una ventina di flaconi, una pasticca quasi ogni ora.

«È questa un’inabilità ambientale permanente - sentenzia Conny, ingoiando la pillola di mezzogiorno -. Chi si ammala di "MCS" dovrebbe essere sostenuto da Inps, Asl, istituzioni al pari di un diabetico o di un malato di Aids». Invece niente, la "MCS" non è una malattia riconosciuta dal Sistema sanitario nazionale. Non è nemmeno classificata come malattia rara.

Tu pensi che in fondo siano talmente pochi i pazienti da non meritare protocolli ad hoc, ma poi scopri che il 5% della popolazione italiana si ammala di "MCS".

Conny elenca i suoi compagni di sventure a Lecce, a Barletta, a Molfetta, ad Altamura, a Giovinazzo. Poi ci sono quelli di Bari, e sono tanti.

«Non tutti vogliono metterci la faccia come sto facendo io. C’è chi ha smesso di curarsi, perché non ha più soldi. C’è chi si è arreso», dice con amarezza.

Per tessere i fili di una rete possibile e per spezzare la solitudine in cui questi ammalati sono confinati, Conny ha organizzato un evento al Teatro Palazzo, con i pazienti, le famiglie e la dottoressa Bruccheri. Un recital curato dall’artista Francesco Galletta, un modo per sdrammatizzare, raccogliere fondi e soprattutto riuscire a stanare dalle proprie abitazioni/prigioni tanti ammalati.

Ma l’obiettivo è anche un altro. Non si tratta di elemosinare fondi qua e là, e il percorso che porti a una legge è ancora molto molto lungo. Servono cose concrete, pratiche e immediate. Servono luoghi. Serve formazione. Serve sensibilità.

Un esempio? Ci sono donne affette da "MCS" che non si sottopongono a un "pap test" da anni perché non possono andare in ospedale. Per farlo avrebbero bisogno di stanze bonificate dove non siano stati usati detersivi chimici e dove anche medici e infermieri indossino indumenti privi di veleni.

Ma servono anche stanze dove incontrarsi, per parlare, per confrontarsi, per non sentirsi soli.

Perché la Asl non mette a disposizione alcuni dei suoi locali? Servirebbe, ancora, un locale dove incontrarsi anche in maniera più ludica, con tovaglie di carta e cibi bio: quale ristoratore barese ha intenzione di raccogliere l’appello?

Ed è importante la formazione degli stessi medici: «La diagnosi precoce è fondamentale - spiega Conny - è già un primo passo per poter cambiare subito stile di vita e sentirsi già meglio, fisicamente e psicologicamente».

La Asl potrebbe decidere di promuovere la formazione di personale che sappia come interagire con i pazienti affetti da "MCS". In alcune regioni, gli assessorati alla Sanità hanno adottato protocolli in tal senso. E in Puglia? Chi sarà in grado di accogliere questo appello?

di Carmela Formicola

FONTE: La Gazzetta del Mezzogiorno 

domenica 5 febbraio 2017

"Vivo come un 80enne per la fibromialgia"


Patrick Schutz si batte per far riconoscere la sua malattia

Viene definita "la malattia invisibile". Non si vede, ma per chi ne è affetto significa sofferenze e malesseri costanti, giorno e notte. Stanchezza, irritabilità, insonnia, acufeni, occhi secchi, confusione mentale, cefalee, dolori cervicali e della colonna, crampi, vertigini... e l’elenco dei disturbi potrebbe essere ancora molto lungo. Lo sa bene Patrick Schutz, di Colombier, a cui nel luglio 2015 hanno diagnosticato la fibromialgia. Si sente come se fosse sempre influenzato, senza febbre ma oppresso da un senso di fatica enorme, desiderando solo di rimanere a letto tutti i giorni che gli restano da vivere. "Ho solo 41 anni e il corpo di un vecchio - dice sconsolato -. Sono costretto a vivere come se ne avessi 80 di anni. In più, tanta gente mi giudica solo un lazzarone".
Patrick ha appena lanciato una campagna di sensibilizzazione sulla fibromialgia che, oltre alla Svizzera, coinvolge Belgio e Francia. "È importante parlarne il più possibile, sul web, nei centri commerciali, per strada", spiega. E su Facebook, dalla pagina "fibromialgia, invisibile ma reale" Patrick posta aggiornamenti in tempo reale. Intanto, si aggrappa anche ad un’altra speranza: il lancio di un’iniziativa popolare "per il riconoscimento della fibromialgia dall’assicurazione invalidità". Ha già il sostegno di associazioni e politici. "Con l’ultima revisione dell’Ai, i tagli si sono abbattuti anche sulle rendite di molte persone affette da questa patologia".
Detta anche sindrome fibromialgica perché include una serie di disturbi che interessano numerose parti del corpo, la fibromialgia è una malattia cronico-degenerativa che colpisce muscoli e tendini provocando dolori locali a volte fissi o diffusi, ma senza che ci siano riscontri patologici negli organi. "Ecco perché nel mio caso hanno impiegato quasi due anni prima di diagnosticarla - ricorda Patrick -. E so di gente che sta in ballo anche molto più a lungo. Il fatto è che non esistono prove scientifiche, non la si può scoprire con un esame del sangue né con radiografie o tac, anche se è caratterizzata da un centinaio di sintomi. La si diagnostica, passo dopo passo, escludendo altre patologie e con un test su 18 punti del corpo, solitamente fatto da un reumatologo
".
Nessun farmaco antidolorofico sembra efficace a lungo andare, inoltre lo stress dovuto all’insorgere della sindrome provoca, a cascata, altri disturbi. Patrick, quotidianamente, ingoia una manciata di pillole, tra antidolorifici, antinfiammatori, antidepressivi, vitamine, medicinali per proteggere lo stomaco e altri ancora per gli occhi secchi e doloranti. In Svizzera i malati sono circa 400mila, nei Paesi industrializzati il 2-4% della popolazione, soprattutto donne.
"Pur riconosciuta dall’Organizzazione mondiale della sanità dal 1992, per l’assicurazione invalidità la malattia non esiste - spiega -. E finisci in assistenza, proprio come me e la mia famiglia, visto che anche mia moglie non può lavorare sennò chi baderebbe a nostra figlia Naya di soli due anni? Mi sento inutile, perché sono incapace di mantenere i miei cari. Un uomo a metà insomma". Lui spera che l’Ai accetti al più presto la sua domanda di riconversione: "Che mi assicuri un’invalidità parziale per una causa indiretta, come la fatica cronica o la depressione". Intanto, per lo sguardo scettico di molte persone c’è poco da fare se non arrabbiarsi. "Pensano che sia solo un problema psicologico. Ma chi soffre di questa patologia non è matto; è gravemente malato, sta male, non può lavorare ed è limitato persino nei più normali gesti quotidiani. I problemi psichici ce li provoca invece la fibromialgia, ma dopo", sottolinea Patrick che sta anche lavorando alla pubblicazione di un libro di poesie, scritte dai malati sulla pagina Facebook, e ad un album di canzoni con tre amici cantanti.
"Ancora troppa gente ci crede degli sfaticati. Anche dei medici che pensano sia solo una questione di testa o che la malattia dipenda da vecchi traumi". E, nel caso di Patrick la tesi avrebbe buon gioco. Aveva 17 anni quando ha assistito alla morte di un uomo, ucciso sotto i suoi occhi a colpi di pietra da suo padre. Una vicenda che all’epoca fece molto scalpore nella regione di Neuchâtel. Col padre, da anni in prigione, Patrick non ha più alcun contatto. "Non l’ho più visto, ma una tragedia simile non si può dimenticare, resterà impressa per sempre nella mia mente". E il destino lo ha messo nuovamente alla prova un paio di anni fa. "Ho rischiato di perdere mia moglie e mia figlia durante il parto, ho vissuto ore atroci, sino alla fine non sapevo se si sarebbero salvate. Tutto ciò non ha fatto che aggravare i miei sintomi, la malattia non mi era ancora stata diagnosticata, ma stavo già molto male".
Patrick trascorre le sue giornate prevalentemente a letto o sdraiato sul divano, su un cuscino speciale che gli allevia i dolori. Se sta un po’ meglio esce con la moglie e la figlia. Ma basta qualche minuto di gioco con la piccola Naya e si sente sfinito. "Anche la sera non esco. Non me la sento. Molti amici li abbiamo persi perché continuavamo a rifiutare cene, barbecue e compleanni, spiegando che dovevo andare a letto alle sette di sera. Per loro era solo una scusa".
Se sapessero la voglia che Patrick ha invece di uscire, viaggiare, divertirsi, portare a cena sua moglie e andare al parco con Naya. "C’è una frase, l’ho letta su un giornale di un’associazione di malati come me, e mi piace ripeterla. Dice: vorrei vivere senza gravità, per evitare tutti i miei dolori. Vorrei che tutto il mio corpo fisico dimenticasse le leggi della fisica".


di Patrizia Guenzi

11 settembre 2016

FONTE: il caffè

La buona sanità al Sirai è un intervento da record


CARBONIA. Sulla paziente allergica a ogni sostanza d'origine chimica

Nel marasma della sanità pubblica, un raggio di luce: pur di evitare a una paziente, affetta da una rara malattia, un dispendioso viaggio a Roma, l'ospedale Sirai ha attrezzato una sala operatoria, una di degenza e un'équipe uniche nel loro genere. Tanto che i protagonisti di questa storia a lieto fine, quando parlano dei professionisti che hanno seguito il caso, non esitano a definirli «angeli». Un elogio pubblico manifestato con lo stesso slancio con cui, in passato, la stessa coppia aveva invece attaccato la Asl per le sue carenze.

GRATITUDINE «Vogliamo testimoniare che esiste una buona sanità», afferma Giovanni Meloni, operaio di Carbonia. È il marito di Maria Bonaria Lepori, casalinga affetta da MCS: Sensibilità Chimica Multipla, allergia totale a ogni sostanza di origine chimica, a stoffe sintetiche, conservanti, profumi, detersivi, fumi, vapori, polveri e pure alle onde emanate da apparecchiature elettroniche. Per avere il contributo all'acquisto dei presidi sanitari, tempo fa la coppia aveva fatto (e vinto) una causa contro la Asl 7. Ma questa è storia vecchia. Quella nuova racconta come sia stato possibile allestire un'organizzazione senza precedenti per evitare alla paziente di trasferirsi a Roma per sottoporsi a un intervento chirurgico. Una sala operatoria bonificata, l'uso di particolari attrezzature, medici e infermieri preventivamente preparati (assenza totale di profumi su persona e indumenti), l'allestimento di una camera di degenza con i medesimi requisiti e a cui poteva accedere solo personale che avesse seguito i parametri prefissati. «Siamo senza parole - sottolineano Maria Bonaria Lepori e Giovanni Meloni - dinanzi a tanta professionalità, infinita pazienza e umanità».

I NOMI Un'umanità con nomi e cognomi ai quali la paziente rende pubblicamente omaggio: il direttore Sergio Pili e il vice Sandro Caria, il coordinatore del Poliambulatorio Sergio Lai, i chirurghi Antonio Tuveri e Nicola Pulix, gli infermieri Anna Franca Pitzalis, Patrizia Cau, Nadia Cherchi, Efisio Campus, Silvana Vincis, Antonella Angius, l'anestesista Enrico Minichiello. Da un lato sia Pili che Caria confermano «le particolari necessità affrontate nel migliore dei modi consapevoli che prima di tutto viene il paziente», dall'altro i coniugi rivelano un desiderio: «Sarebbe ideale se il Sirai o un altro ospedale del territorio ospitasse un centro permanente per i malati di MCS evitando loro di recarsi al Policlinico Umberto I di Roma».

Andrea Scano

28 gennaio 2017

FONTE: L'Unione Sarda